Lucie Borleateau, già co-sceneggiatrice dello splendido “White Material” di Claire Denis, debutta con “Fidelio (L’odysee d’Alice), film scritto a quattro mani con Clara Bourreau. Interprete protagonista Ariane Labed, che qui a Locarno si è già vista qualche giorno fa nelle proiezioni di “Piazza Grande” nel nuovo film di Jasmila Zbanic, “Love island”. Ariane, che a Venezia 67 era stata premiata con la Coppa Volpi per la sua interpretazione in Attenberg di Athina Rachel Tsangari, nel film della Borleateau è una donna imbarcata in un cargo chiamato Fidelio, dove svolge le mansioni di meccanico di bordo, generalmente di competenza maschile, in sostituzione di un membro dell’equipaggio, rimasto ucciso in seguito ad un incidente. Per svolgere il suo lavoro, prima di imbarcarsi si lascia alle spalle il fidanzato di origini norvegesi e incontra sul natante Gael (Melville Poupaud), il capitano della nave, suo amante di una volta. Un terzo uomo invisibile, ma che ha un’influenza notevole sul percorso sentimentale della donna, è il ragazzo morto sulla nave. Questo ha lasciato un diario le cui parole e le cui cronache amorose di una vita evidentemente ricca di avventure, hanno su Alice una forte influenza emotiva, tanto da spingerla verso una rinnovata suggestione amorosa nei confronti di Gael, in un contesto come quello marittimo che sembra proteggerli dal mondo “reale”. In questo senso la Borleateau si sofferma a lungo sulla percezione soggettiva del suo personaggio, ritagliando un film intorno alla forte personalità di questa donna e sopratutto alla performance intensissima di Ariane Labed, lasciando la vita della nave sullo sfondo ma allo stesso tempo evidenziandone gli elementi quotidiani legati alla materialità del lavoro, quasi filmati per contrasto rispetto ad un approccio che cerca di scavare l’interiorità affettiva del personaggio. Aspetti come la fedeltà coniugale, gli amori ritrovati, l’impermanenza del desiderio sfiorano a tratti un’aura quasi Rohmeriana, ovvero inseguendo quella leggerezza che rende assolutamente naturali anche le sequenze di sesso più esplicite. Lucie Borleateau sembra mandare avanti un discorso sulla “promiscuità” come propellente di libertà, esattamente come nel suo mediometraggio del 2012, “La Grève des ventres” vero e proprio triangolo amoroso declinato come un’elegia della vita. E se la nave in questo caso, più che metafora, diventa luogo liminale per eccellenza, dove le convenzioni dei rapporti (fortunatamente) perdono ogni consistenza, siamo molto distanti dalla “Traversée” traumatica della Breillat, ovvero da quell’inconciliabilità dei sessi “progettati per distruggersi”. Lucie Borleateau sceglie una via più leggera ma non per questo più superficiale, la leggerezza, per l’autrice francese, sembra una questione molto seria, nel percorso di formazione dei sentimenti.