Matias Piñero non è nuovo alla rilettura dei testi Shakespeariani. “Rosalinda” (2011) e “Viola” (2012) affrontavano in modo diverso “come vi piace” e “la dodicesima notte” sfruttandone nel primo caso il plot e nel secondo una dinamica squisitamente metateatrale, ma in entrambi in casi rilanciando personaggi, temi e riflessioni filosofiche in una chiave del tutto contemporanea. “La princesa de Francia” è l’ultimo capitolo di questa trilogia Shakespeariana dalle caratteristiche eccentriche e il testo che fa da propellente è “Pene d’amor perdute”. Dopo un anno fuori dalla città natale, Victor torna per mettere nuovamente insieme i pezzi di una piccola compagnia teatrale che aveva diretto. L’obiettivo è una piece Shakespeariana realizzata per la radio con uno stile tra commedia e musical. Le cinque attrici che dovrebbero partecipare sono cinque donne legate a Victor in vari modi, o sono ex amanti oppure ragazze con cui intratterrà fugaci relazioni sessuali. Siamo più dalle parti di “Viola”, nella relazione tra testo e messa in scena, ma con una continua scomposizione della vita personale in quella performativa, tanto che la funzione delle cinque attrici che provano sul testo di Victor innescano una dialettica più complessa tra artificio e vita interiore, prolungando il livello emozionale a partire da quello performativo, e viceversa, modificando i principi della messa in scena con uno stratificato puzzle di connessioni personali ed affettive. Piñero, con la solita leggerezza che caratterizza il suo cinema, si muove attraverso un ricco intreccio di riflessioni culturali, filosofiche e artistiche, per raccontarci la vita interiore dei suoi personaggi. Quello con Shakespeare allora diventa un dialogo a distanza di ispirazione quasi Rohmeriana, uno stimolo che parte dal testo per poi abbandonarlo.