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Locarno 67 – L’abri di Fernand Melgar

Lo svizzero Fernand Melgar torna a parlare del suo paese e della vita degli immigrati, L’abri è l’ultimo di una trilogia documentaristica dopo “La forteresse” del 2008 e “Vol spécial” del 2011, e come nei film precedenti, penetra in un contesto di cattività. Ambientato in un dormitorio per i senza tetto a Losanna, dove il numero insostenibile di richieste e la mancanza di letti costringe i sorveglianti a cacciare chi richiede ospitalità, affronta le contraddizioni della Svizzera contemporanea, un tempo crocevia transnazionale, adesso luogo le cui leggi mettono in discussione l’accoglienza nei confronti dello straniero. È su questa ambiguità che Melgar insiste, sin da “Vol spécial”, il film che sempre a Locarno indignò Paulo Branco per lo “spazio di dignità” offerto ai carcerieri. L’abri non sembra retrocedere di un passo, e Melgar, che per la prima volta ha curato personalmente la fotografia del suo film, osserva ponendosi al centro del contrasto, senza cercare mediazioni, senza preoccuparsi di ammorbidire la flagranza di quello spazio con una posizione morale in anticipo sulle immagini. “faccio film sulla cattiva coscienza” ha dichiarato in numerose interviste, respingendo quindi al mittente l’accusa di fascismo. È quindi potentissima l’immagine stessa dell’abri, letteralmente il portone che separa il mondo esterno da questo piccolo spazio di soli 40 posti, ingresso freddo come l’acciaio dove si raccolgono moltissimi stranieri in attesa di potersi servire di un letto e di un riparo dalle asperità dell’inverno. Il compito dello staff di sorveglianza è proprio quello di selezionare, attraversando la miseria e cercando di mediare tra i posti disponibili e le necessità di chi sta fuori. Melgar indaga i gesti e gli aspetti più brutalmente pratici sopratutto attraverso il responsabile della struttura, uomo dai mezzi spicci, ossessionato dall’ordine, apparentemente privo di qualsiasi luce emotiva. “Non è possibile realizzare un film come questo, senza amare veramente tutte le persone che filmo, incluso quelle considerate cattive” dice Melgar; ed è in effetti la definizione più precisa del suo modo di lavorare, un’immersione totale dello sguardo, senza alcuna tentazione “morale” se non quella di evitare il giudizio, la sutura del commento, la didascalia che separa le vittime dai carnefici. In questo tentativo onestissimo di cercare verità e umanità proprio dove potrebbe nascere un sentimento di rifiuto, Melgar parte probabilmente da un assunto come quello dell’iniquità delle leggi; in questo contesto politico anche i gestori della struttura sono stretti dalla stessa morsa e l’interesse del regista Svizzero diventa una propensione, comunque amorevole, verso il loro lavoro e il modo in cui lo svolgono, come parte di una contraddizione di cui non sono la causa, ma il risultato. L’abri è un film potentissimo e libero, cerca disperatamente un senso tra le cose con l’umiltà di un’osservazione che non sta mai al di qua dello sguardo. Si obietterà, come ci è capitato di leggere in queste ore, che il rischio è troppo alto, che Melgar ricalca i metodi di osservazione sperimentati nelle sue precedenti opere, rischiando di intrappolare il suo occhio in una formula aridamente schematica, che l’assenza di spirito critico potrebbe alimentare le ragioni inaccettabili di una legislazione che ha creduto ai centri di identificazione ed espulsione. Noi siamo convinti del contrario; l’ostinazione di Melgar è assolutamente coraggiosa, possiede quella limpidezza dello sguardo che non cede alla forma reportistica, all’inchiesta, alla centralità, spesso dannosa, del giornalismo politico.

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