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Looking for Grace di Sue Brooks – Venezia 72, Concorso

Looking for Grace, il secondo lungometraggio di Sue Brooks in concorso a Venezia 72, la recensione

Grace è a bordo di una corriera insieme all’amica Sappho, attraversano l’Australia occidentale circondate dal deserto e da pochi insediamenti urbani; Sue Brooks le osserva con un’emozionante attenzione per i dettagli in quelli che sono i piccoli gesti di due adolescenti. La musica rock nelle cuffie percepita solamente attraverso il movimento convulso dei corpi; le loro schermaglie verbali e l’incontro con Jamie, un ragazzo poco più grande, ospite dello stesso pulman.

Quando Grace deciderà di seguirlo, abbandonando l’amica in un piccolo motel, avrà inizio una breve esperienza di scoperta del corpo filmata dall’autrice australiana con una vicinanza che allo stesso tempo sottrae molto, procede per ellissi, evidenzia più il non detto e la visione periferica rispetto alla prossimità fisica.
E il passaggio dalla tenerezza al trauma, viene raccontato con la stessa attitudine. Grace subisce brutalmente l’abbandono e vorrebbe scomparire nel deserto, ma viene raggiunta da due adulti che la stanno cercando, probabilmente i suoi genitori, mentre Sue Brooks mantiene un punto d’osservazione in grado di trasformare le immagini in segni e i suoni nell’immagine della distanza, come accadeva nella Jane Campion dei corti, soprattutto quella di Peel (an exercise in discipline).

Sono i primi venti minuti di Looking For Grace, quelli che ci avevano fatto sperare per un piccolo miracolo, improvvisamente disatteso, perché Sue Brooks decide di inserire delle suture come se quei vuoti così emozionanti fossero difetti da correggere. E il film diventa un’altra cosa.
Pur non sfiorando il rischio dell’effetto corale alla Babel e lasciando comunque alcuni elementi indicibili fuori da questa detection affettiva, il secondo lungometraggio di Sue Brooks delude proprio in virtù delle ottime premesse, dimostrando un allontamento progressivo da uno sguardo a poco a poco riempito con una narrazione a blocchi, che con la retorica della molteplicità dei punti di vista perde proprio quella pluralità implicita nell’immagine che ci avrebbe consentito una maggiore libertà di sguardo, rispetto alla forzatura di un montaggio narrativo così architettato e pensato.

Cambia anche il tono, più orientato al quadretto iperrealista, con quelle prospettive frontali che mettono sempre in relazione due personaggi sullo sfondo di un contesto fortemente caratterizzato, come nell’America tragica e pop osservata da Todd Solondz. Sue Brooks si inventa una galleria di personaggi grottesca e anche commovente, con il talento necessario per lavorare sulle ossessioni degli attori, tanto da ricordare, in alcun brevi momenti, il Lynch più grottesco, quello che isola il tic di un personaggio ingigantendolo nell’espansione di piccolo universo cognitivo e personale. Ma al di là di questo, sembra che la regista australiana non abbia il coraggio di slacciare la cintura di sicurezza del recinto narrativo, approdando alla solita, rischiosissima presenza del caso quando questo è chiaramente il disegno nascosto di un puzzle dove tutte le tessere trovano nuovamente la loro collocazione.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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