Prodotto da Yousuf Panahi, il fratello di Jafar, in condizione di semiclandestinità, “Paradise” dell’iraniana Sina Ataeian Dena racconta del viaggio di Hanieh a Tehran, dove vive con la sorella e il cognato mentre cerca incessantemente lavoro, senza troppo successo. Impiegata temporaneamente in una scuola all’interno della città, la Dena la introduce attraverso una sequenza con schermo nero e due voci fuori campo che discutono sul modo di portare il velo e su quanto, l’attitudine e il giusto modo di porsi, possano influenzare la collocazione sociale di una donna in Iran. Per la regista iraniana, come ha avuto modo di dichiarare, “Paradise” racconta il fantasma della violenza agita in modo pervasivo dal regime, sopratutto sul futuro delle proprie donne. È l’Iran presente, raccontato senza alcuna mediazione, neanche quella dello sguardo intimo e famigliare di Asghar Farhadi.
Al contrario, le conversazioni intorno al velo, più volte stimolate, servono da introduzione ad un discorso più complesso e che coinvolge il ruolo della società come mostro feroce che si occupa dei propri cittadini per modellarli secondo precise convenzioni.
In questo senso la depressione di Hanieh diventa l’inerzia di un intero paese, mentre sullo sfondo, la violenza occultata esplode attraverso le notizie radiofoniche, che inascoltate raccontano della scomparsa di otto minorenni nell’arco di due anni. Come se lo hijab e altre regole imposte, intese ipocritamente come “protezione”, nascondessero il perpetrarsi dell’abuso.
Film ellittico, a tratti enigmatico proprio per le sue dinamiche sottrattive, segno di un cinema sviluppato in condizioni di precarietà politica ed economica, il cui valore è quello di farsi testimonianza.