In questa visione moderna del pellegrinaggio di Maria, una donna attraversa un arido paesaggio nel sudovest degli Stati Uniti. Reinventato e raccontato interamente attraverso il movimento, il film decostruisce il ruolo di questa donna che incontra un mondo colmo di personaggi forti, talvolta terribili, talvolta sublimi. Un viaggio surreale dove si intrecciano rituali, performance.
L’esperimento di Celia Rowlson-Hall si perde irrimediabilmente nel limbo dell’intraducibile, che diviene difetto nel momento in cui non si riesce ad unire i vari tasselli e a donare un nuovo senso a partire da elementi surreali, che non sono mai casuali.
Anche i movimenti performativi che accompagnano il viaggio di questa Vergine Maria in stivali rossi, rimangono qui un semplice retaggio culturale della regista e interprete del film, la quale vanta di una vera e propria carriera come ballerina professionista. Dunque le performance e i corpi ripresi come delle sculture, non riescono ad amalgamarsi bene, rimanendo entro i limiti, nonostante voglia superarli a tutti i costi.
Mentre, ai fini di una traduzione che sia sperimentale, intersemiotica, da un linguaggio a un altro (in questo caso da linguaggio corporeo a linguaggio visivo), occorre che la “traduzione identifichi, forzi, i limiti del mezzo tradotto”.
Ma incorre nella carenza, poiché purtroppo non riesce a dare l’idea della forma testuale, contando una serie di elementi che spaziano tra il surrealismo e il pop, strano ibrido “mostruoso” tra il cinema di David Lynch e di Quentin Dupieux, ad uno stato però germinale, carente e legato all’idea di un’estetica glamour priva di sostanza.
L’assenza di dialoghi, poi, non riesce a supportare/sopportare il peso degli intrecci folli del racconto frammentato, anche se a tratti si rivela interessante l’associazione tra suoni, rumori e immagini, che acquisiscono, almemo parzialmente, il significato di reazione allergica al mondo esterno dell’uomo.
C’è troppa distanza tra cinema e luce-movimento-angolazione-montaggio (strumenti fondamentali per la traduzione), per riuscire a trasmettere quello che Celia Rowlson-Hall si era prefissata, “ascoltare e riportare quello che tutte le donne morte nel mondo avevano da dire, decidendo di narrare le loro storie mai raccontate”.