“Caro Marco, Venezia ha già onorato molti dei miei film e ho anche ricevuto un Leone d’Oro alla carriera. Non vorrei che si pensasse che io conti di allestire un allevamento di leoni. Solo le mie condizioni di salute, molto precarie, mi impediscono di essere con voi e di accompagnare Astrée et Celadon portati dal vento che adoro tanto filmare e che forse sentirete passare sulla laguna”
Sono parole di Eric Rohmer, inviate all’allora direttore del Festival di Venezia Marco Müller, con una lettera che spiegava i motivi della sua assenza alla 64ma edizione del festival, alla vigilia della presentazione alla stampa e al pubblico del suo ultimo film “Astrée et Celadon”
Partiamo da qui perchè Lea Fazer, nel costruire la sua rilettura delle memorie scritte dopo l’esperienza sul set del film di Rohmer da Jocelyn Quivrin, il giovane attore scomparso un anno prima del grande regista francese per un tragico incidente d’auto, si immagina una prova microfoni nella sala del casinò veneziano adibita alle conferenza stampa, con Michael Lonsdale al centro di tutta la film delegation, senza pubblico, in un’atmosfera sospesa tra realtà e sogno.
È un’invenzione narrativa che la Fazer, al suo terzo lungometraggio con “Maestro”, può permettersi proprio in virtù di un rapporto di vicinanza e distanza con la rielaborazione di memorie non sue, a partire dalla scelta di non riferirsi direttamente a Rohmer, creando un personaggio di fantasia, Cédric Rovère.
Quello che interessa alla regista di origini svizzere è avvicinarsi il più possibile alla leggerezza del set Rohmeriano, esperienza collettiva che confonde continuamente vita quotidiana, mitologia cinematografica e sopratutto, la presenza costante e significativa della natura.
Pio Marmai è Henri, giovane attore che rimbalza da un’audizione all’altra, entrato in contatto con Rovere grazie al suo agente, si trova coinvolto in una produzione a basso budget ambientata in un piccolo villaggio medievale nella Creuse francese, isolato dal resto del mondo e totalmente immerso nella natura. Il film che Rovere sta realizzando è l’adattamento di un romanzo di Honoré d’Urfé del XVII secolo, a sua volta ispirato alla mitologia greca. Rovere ha allestito un set semplicissimo, con pochissimi collaboratori fidati, segliendo un formato come il super 16 mm, lo stesso adottato da Rohmer per girare il suo ultimo film. Lea Fazer evidenzia da subito la distanza tra il metodo di Rovere e le aspettative di Henri, abituato ad altre esperienze di set; dalla lettura collettiva del testo alla visione privata di un vecchio film dell’anziano regista che ricorda esplicitamente “Pauline alla spiaggia“, emerge una relazione semplice e intima del mestiere d’attore, quello che Rovere stesso cercherà di indicare al giovane Henri, inizialmente incapace di applicare le sue mutazioni emotive alla dimensione del ruolo.
Sarà proprio il rapporto con l’attrice partner, Gloria (Déborah François), sospeso sul limite tra innamoramento e finzione, a trasformare il gioco dell’attore in un percorso di educazione sentimentale, dove la sostanza di questo sentire è quella che dalla vita quotidiana passa senza soluzione di continuità nello spazio del set.
Con il tono leggero di una commedia che si affida anche al vento e ai suoni della natura, quello di Lea Fazer non è un omaggio didascalico al cinema di Eric Rohmer, quanto l’individuazione di una fragile membrana che separa il teatro dal cinema proprio nella capacità di cogliere piccole flagranze, lievi slittamenti dell’anima.
E se in alcuni casi, c’è la tentazione di ricorrere alle immagini di un cinema “delizioso”, quelle di una certa retorica “magica”, con il solito campionario di jump-cut un po’ scolastici o le improvvise accelerazioni (il gioco tra Henri e il cane, oppure le foto che li ritraggono insieme), ci sembra che la Frazer riesca a cogliere con una rispettosa distanza, la sottile e straordinaria incompiutezza dell’immagine Rohmeriana, vitalmente sospesa tra l’istante e il mistero.