Se ci limitassimo ai piccoli grandi miracoli che Darius Khondji è in grado di compiere con la luce, basterebbe osservare l’allure di Emma Stone nel nuovo film di Woody Allen. Il grande direttore della fotografia Iraniano si è ispirato al lavoro di Jacques Henri Lartigue, uno dei più importanti fotografi francesi del ‘900, figura artisticamente complessa, a metà tra ritrattistica pittorica e fotografia e sopratutto attento studioso dei fenomeni luminosi, la cui ricerca puntava, in estrema sintesi, alla rivelazione di una fonte di luce che avvolgesse i suoi soggetti, per restituire il senso di una felicità metafisica che ha dato origine ad una serie di scatti sospesi tra realismo e magia, documentazione del quotidiano e astrazione pittorica, tanto che alcune delle sue prime sperimentazioni, fotografie “invisibili” e attualmente rarissime ottenute con alcune tecniche di sovrimpressione, sono veri e propri “pseudo-fantasmi”, come vengono definiti, qualità dell’immagine che in qualche modo ci porta dalle parti della magia simulacrale di Magic in the Moonlight, ennesima fantasia alleniana sul rapporto tra desiderio, illusione, morte, religione e naturalmente, cinema.
Ma continuiamo con l’imponente architettura visuale ideata da Khondji. La luce di Jacques Henri Lartigue viene in qualche modo ricreata ricorrendo a quell’ammorbidimento ottico delle vecchie lenti Cinemascope degli anni ’70, utilizzate per Magic in the Moonlight su pellicola Kodak 35mm con un processo di riduzione del contrasto che ha consentito di ottenere un’immagine naturalmente più morbida e sfumata, non così distante dagli anni ’20 ricostruiti nel cinema americano di quarantacinque anni fa. Una sovrapposizione tra tecnologia e memoria che nelle intenzioni di Khondji va nella direzione delle autocromie su lastre di vetro brevettate dai Lumiere e giunte fino agli anni 30.
Il soggetto di contrasto tra questa sintesi additiva dei colori e la luce che irradia come un’esplosione della vita diventa il corpo di Emma Stone; letteralmente immerso in un guscio, delinea i confini di quella stessa aura che circondava il volto di Carole Lombard, un’energia luminosa attraverso la quale Allen recupera il fantasma di un cinema della memoria come se dovesse far propria quell’intuizione “dell’irrealtà della realtà” che attraversa tutto Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, riducendo la proliferazione delle immagini fotografiche e dei fenomeni percettivi del romanzo dello scrittore americano in una sola platonica, riflessa dal cinema che ha amato, incluso il proprio.
Il sorprendente connubio Darius Khondji / James Gray per The Immigrant partiva dagli stessi presupposti; lo studio delle autocromie, l’esame attento della corrente fotografico-pittorialista e dei pittori realisti newyorchesi dei primi del ‘900 (Robert Henri, George Bellows, John Sloan, Everett Shin, George Luks) e l’impiego di lenti anamorfiche, anche nella direzione che gli consentisse di recuperare (per stessa ammissione di Khondji) l’anamorfismo delle immagini Felliniane. Per Gray, la resistenza al digitale è un modo per avvicinarsi al funzionamento dell’occhio; i grani di alonugero d’argento sono i punti dell’immagine, la ricostruiscono così come noi la elaboriamo. Senza l’ossessione nostalgica e feticista per il dispositivo, The Immigrant localizza il vuoto di un cinema notturno e interiore, anche nell’antimateria della grana, uno specchio che riflette senza vedere, come l’essenza dell’amore descritta da Louis Aragon in Contre-Chant, poesia amata dallo stesso Gray e che ritrae un’orbita svuotata e riempita da un’immagine negativa: “Sono quello sventurato paragonabile agli specchi / Che possono riflettere ma non possono vedere / Come loro il mio occhio è vuoto e come loro abitato / Dall’assenza di te che fa la sua cecità“.
Questo sentimento Lacaniano dell’assenza mette in contatto Gray e Allen attraverso i fantasmi e i “ricordi d’infanzia fluttuanti” del cinema di Fellini, ma mentre il primo, di Amarcord ama l’accumulo e l’ipertrofia delle situazioni, selvagge e tese verso una complessa unità accordale scaturita dal magma cognitivo del secondo conflitto mondiale, l’autore di Radio Days è abbacinato dall’autonomia degli episodi, dal bozzetto autoriflessivo, dall’immagine come “effetto collaterale” rispetto al motto di spirito.
Magic in the Moonlight è, più di Radio Days, un album di ricordi alleniani, per il modo in cui tutto l’universo del cineasta newyorchese converge verso un’immagine chiusa, autosufficente, dove il cinema come artificio è il culto di una fede laica fondamentalista nella riproposizione di tutti gli elementi al posto giusto, anche quelli che coinvolgono un tiepido tentativo di disinnesco dell’agnosticismo cinico di Stanley (Colin Firth).
La superficie visiva allestita da Darius Khondji è quindi un involucro, un artefatto in stile utile ad Allen non certo per aprire una voragine tra illusione e realtà, casomai per moltiplicare gli enunciati con evidenti marcature che scovano l’autore ovunque, situabilissimo e sempre un passo prima rispetto alle immagini, sia che queste provengano da ossessioni spettatoriali compulsive (la screwball comedy, Hitchcock, Gregory La Cava, Ernst Lubitsch) oppure da una rilettura crepuscolare e senile del proprio mondo immaginale (Una commedia sexy in una notte di mezza estate, Alice, Zelig, Crimini e Misfatti).
Rispetto alla dolente deriva di Cate Blanchett in Blue Jasmine, dove il punto di vista alleniano si infrangeva tra il delirio performativo dell’attrice e la crudezza degli spazi (case, strade) sottoposti a svuotamento, come accadeva nei film più “asciutti” del regista americano, quelli “desolati” e fortunatamente privi della retorica “magico-cinefila” (Match Point e il notevole Sogni e delitti, opposti e complementari), Magic in the Moonlight torna nel nido delle proprie paramnesie; luci di un cinema che muore ogni volta, guardandosi.