Lee Tamahori torna alle sue radici e Mahana è un tentativo sconfortante e interessante allo stesso tempo. Non c’è alcun punto di contatto con la rabbia di Once Were Warriors in quello che sembra un film grossolanamente melodrammatico, ma è proprio il livello più esplicito dei riferimenti al cinema americano della fine degli anni cinquanta che lo avvicina alla sostanza popolare e domestica del film realizzato nel 94.
Più di George Stevens allora c’è l’elaborazione di quegli stereotipi attraverso il filtro, anche fotografico, delle soap, che consente al regista neozelandese di far emergere in superficie tutti gli elementi del dramma, concentrandosi sui volti, il linguaggio e i segni di una cultura che sopravvive alle narrazioni dominanti. In questo senso la Nuova Zelanda degli anni sessanta e il realismo sociale di Once Were Warriors sono involucri che accolgono segni identitari molto precisi, ma mentre nel primo caso la stratificazione generava un complesso avvitamento tra contemporaneità e tutti gli aspetti irriducibili (nel bene e nel male) di una cultura, in Mahana lo strappo viene ricucito per favorire un linguaggio convenzionale che spinge sullo sfondo qualsiasi tentativo di raccontare la storia di una tradizione culturale. Non sono sufficienti i tatuaggi sul volto dei personaggi, la convivenza tra Maori e Pakeha, l’attenzione alla prassi del lavoro rurale oppure quel momento di danza Haka che contrappone i Poata ai Mahana in un conflitto famigliare durato decenni, perchè in un racconto che avrebbe potuto essere ambientato ovunque, con la riconfigurazione di una storia patriarcale a fare da collante, tutti questi elementi rischiano di assumere una qualità decorativa.
Rimane certamente la volontà di costruire un’epica accessibile, tentativo che non ci disturba affatto, ma che qui cede il passo ad una confezione sin troppo addomesticata per far esplodere tutte le contaminazioni e gli innesti di un racconto veramente popolare.