Movimenti nervosi della macchina da presa, montaggio serrato e dialoghi confusi, asfissianti, parole urlate, sputate dalle voci furiose dei protagonisti di questo noir atipico.
È una frenetica e spietata avventura condensata in una notte, quasi un on the road sull’asfalto bagnato dalle luci artificiali della città. Le inquadrature sono sporche, traballano, si muovono frenetiche da un volto feroce all’altro, seguendo una recitazione a tratti palesemente improvvisata. Attori lanciati in un’intensa avventura col solo supporto di un canovaccio, che spesso trasgrediscono, abbandonati alle proprie stonature, alle proprie imperfezioni, che però, nonostante rendano il lavoro estremamente realistico, catapultano lo spettatore in una spirale confusionaria e vertiginosa, spesso disturbante.
Tutto traspira disumanità. È una virtù criminale quella che muove i personaggi di questa storia, in cui l’eroe più degno è colui che arriva alla trasgressione, all’atto di violenza più bieco, senza paure e senza rimorsi.
Una struttura e una gestione degli attori da parte del regista Jean-Charles Hue che non può non ricordare L’Odio del connazionale Mathieu Kassovitz. Il modello di riferimento resta però ineguagliabile. Mange Tes Morts è infatti uno spaccato sociale che manca del rigore formale e della strategica adozione di una regia invisibile che lasci comunque affiorare un’acuta ricercatezza estetica.
Lo sguardo sociologico alla base del capolavoro di Kassovitz qui cambia oggetto di osservazione, concentrandosi su una famiglia di rom della degradata periferia. Un sobborgo che qui si trasforma in una landa desertica, specchio di un’umanità inaridita dall’odio e dalla violenza ormai inevitabilmente radicata nell’animo dei protagonisti.