“A tutti piacciono i nonni”. La tata ha appena finito di raccontare alla nipotina del protagonista che uomo sorprendente sia stato suo nonno. Nel desolato angolo di provincia texana dove vive da quarant’anni, tutti sembrano avere un aneddoto miracoloso da raccontare su A.J.Manglehorn, ma della forza vitale, del fascino del personaggio di quelle storie David Gordon Green non ci mostra nulla, se non l’impietoso confronto con la realtà attuale. In perfetta antitesi con l’opinone della tata, il fabbro interpretato da Al Pacino non piace a tutti, men che meno a sé stesso, e pare non voler far nulla per cambiare le cose. Incidenti a catena, terremoti e commoventi serenate gli scivolano mestamente addosso, mentre si accartoccia su di sè incorniciato dal muro di chiavi del suo negozio o dai neon di squallidi diner, slot machine room e sale massaggi. In conflitto perenne col figlio in carriera, viscidamente idolatrato da personaggi equivoci per il suo passato di coach della squadretta di baseball del quartiere, poco stimolato dal possibile flirt dell’impiegata di sportello da cui preleva contanti ogni venerdì, si mantiene in vita in funzione della sua gattina Fannie e, soprattutto, dell’amaro monologo interiore che porta avanti nelle lettere che scrive invano al suo grande amore di gioventù. Lo sguardo di Green si conferma vorace di bizzarrie dell’ordinario, aprendo inaspettati squarci visivi nella polverosa periferia texana: stranianti spettacoli di mimo, cimiteri di barche dove vanno a spegnersi i desideri di fuga, quintali cocomeri spappolati su asfalto e lamiere con la violenza splatter. Ma queste brevi e felici suggestioni attraversano il film come fossero avulse da esso, inscatolate in virtuosistici numeri di regia che però galleggiano in maniera slegata attorno al centro magnetico del film rappresentato dal corpo opportunamente ingobbito e privato di fascino di Al Pacino. Il grande attore hollywoodiano, impegnato nel lodevole esercizio dare sostanza cinematografica ad un uomo sgradevole e ordinario, finisce però per inghiottire la vicenda minimalista dalla sceneggiatura di Paul Logan, che poteva sopravvivere di allusioni e sottrazioni e invece tracima di un istrionismo decisamente alieno al contesto. In questo senso, l’intero impianto di messa in scena di Green pare non aiutare, prevedibilmente al servizio del suo ingombrante interprete e intestardito su cascate di voci narranti e dissolvenze incrociate alla continua ricerca di sovrappiù emotivi. Il post-rock da magone degli Explosions in the Sky, che nel precedente Prince Avalanche avevano trovato nei boschi del Texas l’elemento naturale adatto per ticchettii, crescendo e detonazioni di ritmo, finiscono per risultare controproducenti nella mesta atmosfera provinciale, a loro volta caricando di enfasi epica un intreccio troppo fragile e intimo per sostenere il colpo. Come gli aneddoti del fulgido passato di Manglehorn, le modalità del racconto di Green creano un’illusione di grandezza non supportata dai fatti esposti allo spettatore; per quanto possa trattarsi di un esercizio di coerenza col soggetto trattato, risulta in definitiva controproducente, suscitando purtroppo di ingiustificata pretenziosità. Il cameo di Harmony Korine nei panni del respingente pappone Gary suggerisce di inscrivere Manglehorn in quella costellazione di cinema indipendente (Clarke, appunto Korine, un certo Baumbach) che restituisce i riflessi più sgradevoli e misantropici dell’America odierna, per quanto il lavoro di Green (come il finale conferma) appaia come la sua emanazione più addomesticata e pacificata, e per questo meno convincente nei suoi intenti.
Manglehorn di David Gordon Green – Venezia 71, Concorso
Manglehorn di David Gordon Green, la recensione