Mercurio influenza l’andamento dei personaggi dell’ultimo film di Virgil Vernier in modo diverso. È un pianeta, un elemento chimico, un riferimento mitologico legato al dio del commercio, un complesso urbanistico, tutte interpretazioni che il cineasta Francese ci suggerisce di volta in volta contaminando la consueta attenzione scientifica all’ambiente architettonico, motore del suo cinema documentario, con la frammentazione del racconto; in questo senso, più che il suo primo lungometraggio di “finzione”, Mercuriales ci sembra una meditazione sul futuro ancorata alla descrizione di una terra post industriale completamente degradata, dove attraverso la prosa, cinema diretto, materia documentale e la costruzione di un discorso poetico, la “finzione” appunto, altro non è che l’emersione di un luogo transizionale, lo stesso che in Sans Soleil di Chris Marker veniva generato, spontaneamente, dal contrasto tra invenzione immaginaria del testo e il modo in cui questo stimolava la ricerca di uno spazio reale da registrare con la macchina da presa.
Les Mercuriales sono le torri gemelle francesi; erette nel 1975, guardano la suburbia Parigina, da Bagnolet e fanno parte di un progetto di riqualificazione del distretto occidentale della città, noto con il nome de “La defense”, interrotto nel periodo di crisi più nera della capitale francese. Isolate al centro di un crocevia autostradale, Les Mercuriales sono filmate da Vernier con uno sguardo a metà tra astrazione mitologica e interesse morfologico; i due complessi dominano l’area urbana come moderni Ziqqurat e Vernier ci mostra l’ascesa e la scomparsa tra le viscere dell’inferno con una dinamica verticale che sposta continuamente il punto di osservazione.
Nello spazio blindato di una postazione di sorveglianza, completamente isolato dall’esterno e collegato all’area circostante solo attraverso i sistemi audiovisivi a circuito chiuso, Varnier registra una perturbante sovrapposizione tra il luogo della fantascienza ballardiana e la paranoia contemporanea; cintura di protezione che scaglia un pachiderma tecnologico di vetro e metallo contro il caos brulicante e oscuro dalla banlieue.
È un primo segmento del film, apparentemente sconnesso da tutto il resto, in realtà parte di un preciso percorso urbanistico che contrappone le aberrazioni architettoniche del capitalismo con una ricognizione nelle viscere della città, fuori dall’orizzonte aereo delle torri.
Vernier utilizza un complesso intreccio di codici audiovisivi, da una parte la città elettrica, tracciata dai neon e catturata dalla fotografia oscura di Jordane Chouzenoux, che ha girato interamente in 16 mm; dall’altra la musica di James Ferraro, guidata da una cronometria elettronica, vicina ai groove analogici di alcuni film degli anni ’80, da quelli di Carpenter a Liquid Sky, il poema urbano di Slava Tsukerman.
L’immersione dei personaggi di Mercuriales è nel cambiamento della flanerie urbana, dove lo sfondo stesso muta in graffito, in spazio defunzionalizzato, oppure scompare tra le luci dei club notturni; i corpi sono quelli di Lisa (Ana Neborac) e di Joane (Philippine Stindel), la prima moldava, la seconda francese. Lavorano come receptionist nel complesso architettonico e vagano di notte tra spazi desertificati e strip club, entrando e uscendo da queste due metà del mondo come se vivessero una continua sostituzione simbolica tra sogno e realtà; è un procedimento ipnotico che trasforma il film in un poema visivo, fatto di luci, suoni, figure abbandonate al loro vagare, speculazioni filosofiche sul futuro e l’incombenza della morfologia urbana che plasma la vita delle persone, ma allo stesso tempo che prende vita grazie alla forza immaginale. In un certo senso Mercuriales si avvicina al cinema sinestetico di un altro giovane autore francese, Armel Hostiou, che con il bellissimo Rives, catturava il percorso di tre personaggi filmati da tre zone differenti della città, che confluivano, letteralmente, in una percezione completamente inedita di Parigi, improvvisamente sfumata in un’immagine di pura luce ed elettricità.
La capacità di Vernier è quella quindi di cambiare costantemente registro con un pro-filmico che scardina le regoline più abusate della messa in scena (quelle che in fondo, nel nostro cinema nazionale indipendente, mimano il cinema industriale con i giocattolini digitali) e che reagisce diversamente in base alla modulazione; la sequenza del palazzo in demolizione, sottolineata dai rumori della ruspa confusi con la sperimentazione sonora di Ferraro, contribuiscono alla creazione di un’immagine che sembra figlia della fantascienza anni ’50, mentre la luce che illumina la facciata è oscura e caldissima come in un gotico post-moderno, ma la demolizione che stiamo guardando rimane a metà tra affabulazione immaginifica, grazie alla scelta del 16 mm, e flagranza documentaristica; un contrasto che non è necessariamente oscuro e negativo, per stessa ammissione di Vernier, la sua non è esattamente una distopia, ma uno sguardo partecipato e caldo nei confronti di queste donne che filma con un forte senso di vicinanza; “se avessi dovuto realizzare Mercuriales in digitale”, ha detto il regista francese, “forse lo sguardo non sarebbe stato altrettanto caldo, ma molto più cinico”
In fondo Mercuriales, è un film che ci restituisce l’immagine di un gruppo di sopravvissuti che delinea il proprio spazio mitologico; all’ombra del capitalismo architettonico del recente passato, il futuro è una vera e propria wasteland.