Una famiglia Giapponese riceve un pacco di enormi dimensioni, questo è costituito da una gabbia che contiene una giovane donna “Zombie” e da una valigetta allegata. Dentro la valigia c’è una pistola utile nel caso sia necessario sopprimere la creatura, oltre ad un libretto di istruzioni che indica una rigorosa dieta vegetariana affinchè Miss Zombie non diventi aggressiva e si dedichi al massimo delle prestazioni nelle faccende di casa.
Comincia così il nuovo film di Hiroyuki Tanaka, meglio noto con il moniker di Sabu, sorprendente ritorno per il regista giapponese, lontano dallo stile ipercinetico e parodico delle sue produzioni più note ma allo stesso tempo legato strettamente ad una poetica che gli è sempre stata congeniale, “Miss Zombie” porta ad estreme conseguenze quel cinema familistico che già era presente nel precedente Usagi Drop, ma con una dose superiore di cinismo e di disperazione.
Girato in un bianco e nero digitale completamente sovraesposto, da una parte sembra riferirsi a certe atmosfere del primo Romero, dall’altra allinearsi alle produzioni autarchiche di Tsukamoto, ma con un deciso allontanamento dall’omaggio “tout court” grazie ad una complessa e originale sovrapposizione di registri che lo rendono un film assolutamente unico, non solo all’interno della filmografia del noto regista Giapponese.
Miss Zombie, assolutamente passiva e intenta ai lavori più umili, è una creatura minacciata dalla memoria e oggetto continuo di abusi; subirà una serie di stupri ripetuti, mentre sarà affidata alla pulizia di un pezzo di cortile che eseguirà meccanicamente con un gesto quotidianamente automatizzato che non porta a niente; il film infatti insiste sul suono ripetuto prodotto dalla spugna di metallo che gratta il terreno, quasi fosse la colonna sonora di una condanna.
Sabu trasforma il gesto e le azioni in un rituale infernale che si ripete senza soluzione di continuità dilatando progressivamente il tempo dell’azione in una dimensione ipnotica e togliendo quasi da subito la presenza di qualsiasi dialogo; ma “Miss Zombie” non è un film “muto” nella direzione in cui lo sono quelli di Hazanavicius e di Pablo Berger, anzi, a quel cinema nostalgico contrappone una brutalità essenziale dove la parola viene sostituita dal suono, dal grido, da un rantolo animalesco che azzera ogni riferimento con la civiltà conosciuta, prima di tutto, proprio quello linguistico.
Miss Zombie mantiene un attaccamento alla vita più essenziale rispetto a quello di un mondo completamente disumanizzato, e diventa portatrice di un sentire che era già nel cinema di Romero e di Fulci, ma con una potenza istintiva del tutto inedita legata per certi versi al recupero estremo della maternità.
Quando il figlio di Shizuko (Makoto Togashi) sarà trovato senza vita in riva ad una pozza d’acqua, questa forzerà Miss Zombie (Ayaka Komatsu) a riportarlo in vita, ponendo cosi le condizioni di un nuovo legame indissolubile tra il bambino e la “non morta”; allo stesso modo quando Shizuko cercherà disperatamente di riacquisire il senso della sua maternità, sarà sempre Miss Zombie a stabilire un contatto tra i due mondi.
Ambientato in una casa completamente stilizzata ed essenziale, che ricorda gli ambienti di alcuni film di Edgar G. Ulmer (The Black Cat prima di tutti) il film si apre a poco a poco verso un paesaggio di asprezza Imamuriana, dove la presenza di un Dio o di una vita dopo la morte è completamente inaccessibile; l’unico passaggio dalla vita alla morte è quello dei corpi che sembrano destinati a ripetere azioni basicamente legate alla terra, come fossero inesorabilmente trainati su un nastro di Möbius.