Mita Tova conferma il sodalizio tra Sharon Maymon e Tal Grant, Best Pitch Award alla Berlinale del 2010 per la sceneggiatura di “My Sweet Euthanasia” su cui è basata la loro ultima fatica cinematografica, presentata quest’anno a Venezia 71.
In una casa di riposo a Gerusalemme risiedono un gruppo di amici la cui routine viene stravolta da un avvenimento cruciale che li avvicinerà progressivamente dal punto di vista umano e relazionale: il marito di Yana è un malato terminale che chiede disperatamente di porre fine alle sue sue insopportabili sofferenze; pretesto per Yehezkel (Zeev Revah) per costruire un marchingegno che possa aiutare l’amico in fin di vita a compiere la scelta dell’eutanasia.
L’episodio è la chiave di volta da cui si sviluppa tutta la storia: cominciano a diffondersi voci sull’esistenza di una macchina per il suicidio assistito, fatto che provoca un’inevitabile reazione a catena e una serie di richieste di aiuto che ne reclamano l’utilizzo. Il gruppo di pensionati si trovano di fronte ad un dilemma etico, il loro è un bilancio complessivo dell’intera esistenza, in equilibrio tra il continuo aggrapparsi alla vita con la costante paura di perdere sé stessi, riducendosi ad un “guscio vuoto” mano a mano che la vecchiaia avanza, e la quieta rassegnazione data da un’esistenza tutto sommato vissuta in serenità e che dunque merita una fine altrettanto serena. Un tema così delicato su cui ancora si discute come quello dell’eutanasia, è letto in chiave ironica e irriverente sviluppando riflessioni a tratti un po’ dolci/amare.
Si riconosce molto il tocco di Maymon che già con “A Matter Of Size” (2009), aveva affrontato con umorismo e delicatezza il tema dell’obesità, attraverso una commedia che puntava a stigmatizzare il ricorso a diete rigide ed opprimenti, per chi soffre di problemi legati al peso.
L’irriverenza con cui Maymon e Granit scelgono di affrontare il cuore del loro film, non punta assolutamente a svilire tematiche importanti come quelle dell’eutanasia o dell’Alzheimer (malattia degenerativa che affligge la moglie di Yehezkel, sempre più vulnerabile ed incosciente rispetto a ciò che la criconda) o del rapporto omosessuale che si instaura tra Daniel e Rafi, perchè tutta questa complessa rete di relazioni viene concepita con estrema naturalezza facendo emergere un volto di Israele meno legato alla tradizione e più moderno ed aperto ai nuovi orizzonti, mostrando con coraggio contesti e situazioni sociali non così conosciute.
Il film, in definitiva, funziona bene: anch’esso, come la macchina costruita da Yehezkel, è un congegno in cui ogni elemento ha una funzione ben precisa, con una sceneggiatura riuscita, al limite tra eterodossia e dogma: Yehezkel, in apertura, durante una conversazione telefonica convince un’anziana signora che chi gli sta parlando sia Dio in persona, il gioco non è una beffa crudele, ma serve ad esortarla affinchè non si lasci andare e prosegua con le sue cure. La vecchiaia non è vista come un’inesorabile condanna per l’essere umano, ma può riservare delle sorprese, offrendo la possibilità di “svegliarsi all’indomani e di vedere le cose in maniera diversa”.