La madre taglia il pene al figlio per punire il padre che la tradisce e impedire che il figlio si identifichi con il padre, il padre fa trapiantare il proprio sul ragazzo per espiare le sue colpe e ripristinare i ruoli, il membro funzionerà solo nel sogno, appagando l’Edipo che è in noi. Annullato l’Eros, Thanatos è in attesa in fondo alla strada. Questa la sinossi ridotta all’osso di Moebius, sgombrato il campo dal florilegio di letture che si rincorrono ad ogni nuovo film di Kim Ki-Duk, alla ricerca del senso perduto.
Moebius è risultato il film della Mostra di Venezia70 più discusso e controverso prima ancora di esser visto. A visione avvenuta si può tranquillamente affermare che Kim Ki -Duk continua a stupire per lo spirito di profonda meditazione di cui intride le sue opere, per l’unicità nel riuscire ad elaborare una complessa e straordinaria visione del mondo affidandola solo ad immagini, rinnegando definitivamente le trappole del linguaggio, per l’assoluta libertà nel muoversi tra i registri espressivi più eterogenei, avvicinando tra loro estremi di impensabile conciliazione.
Tragedia che sconfina nella commedia, quindi ritorna su sè stessa, riarrotolandosi dalla meta fino al punto di partenza in un cammino infinito, siamo ancora e sempre dalle parti di quella che, con insuperata e folgorante esattezza, Dario Tomasi ha chiamato “poetica bipolare”.
Cinema di contrasti forti, la crudeltà è sempre il passo iniziale.
Non c’è trasgressione che freni la fantasia, perchè è il concetto stesso di trasgressione che finisce di esistere con Kim Ki –Duk.
Percorrere il “nastro di Moebius”, in topologia, insegna che un cammino può durare all’infinito, nella scienza come nella vita. Passare da una parte all’altra del nastro senza attraversare il bordo, ritrovarsi al punto di partenza e dalla stessa parte, rende comprensibile l’interscambiabilità dei ruoli, l’infrazione del limite, la complessità del tracciato esistenziale, con perdita conseguente dei convenzionali punti di riferimento.
Si arriva così alla radice di tutto: la Sagrada Familia.
Il Padre, che trasferisce con trapianto il suo pene al figlio per riscattare colpe di cui il figlio è vittima innocente. La Madre, di dolcezza infinita e bisogno di amore insaziato, tradita e vendicativa, amata e misericordiosa, presenza onirica e appagante nei sogni del figlio. Il Figlio, vittima sacrificale, gettato nella vita da quel pene e costretto a restarvi senza una ragione, in una solitudine angosciante.
La scena finale del film è la chiave per riarrotolare il nastro e rileggere il tutto.
La famiglia si disintegra, colpita a morte nelle sue stesse fondamenta: l’amore coniugale è tradito, la comunicazione verbale è del tutto assente fra i suoi membri, il ricorso alla violenza è costante, e Kim Ki –Duk sceglie di renderla visibile nella sua forma più immediata, priva di compromessi con sofismi vari ed eventuali, quella visiva.
Dunque il sangue, l’escoriazione, l’accoltellamento, l’evirazione, lo schiacciamento del pene, che rimbalza pazzerellone sotto le ruote delle auto sul selciato, dove è finito nella lotta per riacciuffarlo.
Tutti elementi di un linguaggio visivo puntigliosamente estremizzato, al limite del comico in momenti ben precisi che il regista/demiurgo decide quali debbano essere, perché l’approdo del tragico alle regioni sulfuree e allucinate del comico è operazione da guidare con estrema perizia.
La media fra i registri espressivi è fatta dalla vita reale, e nella post-visione ci si rende conto di quanta verità è trapelata da quelle immagini.
A Venezia abbiamo visto l’edizione integrale del film, in Corea hanno tagliato 21 scene. Il regista, in conferenza stampa, ha mantenuto un aplomb esemplare affermando che il suo è cinema, e come tale deve parlare della realtà, registrare lo stato di salute della civiltà.
“E’ la società che viene da me e io la trasformo in cinema”.
E, come nella vita, si ride, si piange, e si sogna. Freud docet.