Il Monte degli Ulivi, ad est di Gerusalemme, ha una buona parte dei pendii occupati da un cimitero; è una zona sacra con un significato specifico nella cultura ebraica e rappresenta il luogo della resurrezione dopo la fine dei giorni. La regista israeliana Yaelle Kayam ambienta il suo lungometraggio di debutto proprio in questa zona, dove una famiglia ortodossa vive ai margini delle tombe con l’incarico di vegliare i morti, in una casa scavata nella pietra. Tzivia (Shani Klein), la madre di famiglia, vive reclusa tra il cimitero e i doveri famigliari, mentre accudisce i figli, prepara il cibo e attende il marito, dedito alla preghiera e incurante delle necessità sessuali della donna.
Yaelle Kayam segue Tzivia nel suo quotidiano vagare tra le tombe, alla ricerca di un segno che arriverà solamente dallo scavafosse arabo di Ramallah con cui le è proibito parlare e dalla prostituta gestita e scopata da un gruppo di balordi, avvistati nei loro amplessi sulle lapidi mentre la donna si concede alcune escursioni notturne nella parte più alta del pendio cimiteriale.
Tra aporia e itineranza, la regista Israeliana costringe il suo personaggio a confrontarsi con un paesaggio dal grande significato sacro vissuto in condizioni estreme, cercando un interstizio che possa aver luogo tra mitologia e tempo presente. La sua trasformazione è in qualche modo negata dalle circostanze culturali, ma allo stesso tempo le consente di esplorare nuove vie proprio a partire dalla condizione di cattività. Attratta dalla brutalità selvaggia degli amplessi spiati in penombra, diventerà una presenza fissa per quel mondo ai confini del lecito, offrendo da mangiare il cibo cucinato secondo i principi della cucina Kosher e che quotidianamente prepara per la famiglia.
Yaelle Kayam realizza un film asciutto e crudele, fortemente ancorato al rituale dei gesti, nel loro passaggio impercettibile dalla lettura sacra a quella secolare; è una commistione di segni che esce dall’immersività di un film come Kadosh di Amos Gitai o dal punto di vista interno alla comunità hassidica ne “La sposa promessa” di Rama Burshtein, ma che rileva la stessa ambiguità in quel dissidio aspro e doloroso che segna la vita delle donne legate alle comunità ortodosse.
Il Monte degli Ulivi, per le scritture luogo elettivo della resurrezione, incorpora il contrasto tra la vetta lanciata verso il cielo e una base costituita da tombe; nel film la Kayam non inquadra mai la cima della montagna, ma si ferma sugli sguardi di Tzivia e dello scavafosse che guardano oltre l’orizzonte senza che ci sia possibile distinguere il vertice come immagine dell’elevazione.
Non c’è niente di salvifico in Mountain, tutto rimane ancorato alla terra e alla necessità di Tzivia di trovare vita in una terra occupata dalla morte; persino l’ambigua scelta che spinge la donna a sbarazzarsi di una delle due vite, non avrà la spinta vitalistica di una soluzione né alluderà ad una redenzione; con la pentola svuotata e i pezzi di pane masticati, depositati sul fondo, Tzivia emergerà dalla notte precedente disorientata e con il pallore di un cadavere; morta tra i morti, nessuno verrà a salvarla.