Nicole Vögele è attratta dalle forme rituali del quotidiano, i suoi film si sono sempre spinti ai margini della civiltà, sopratutto su quel confine tra natura e insediamento umano, limite che le ha permesso di evidenziare maggiormente la sopravvivenza di alcuni codici in ambienti destinati all’entropia.
Il suo primo corto, Frau Loosli, seguiva i giorni solitari di una vedova, rimasta isolata in una fattoria ai piedi delle alpi svizzere; l’assurdità della vita veniva scandita dalle azioni ordinarie dell’anziana signora, ogni giorno sempre uguali. In die Innerein, il secondo lavoro della Vögele è un documentario sperimentale ambientato nel cuore delle Alpi Svizzere, dove una giovane donna vaga in un percorso esplorativo senza meta apparente, tra flusso di coscienza e indifferenza della vastità naturale.
Nebel è il primo lungometraggio della documentarista Svizzera e in qualche modo prosegue la sperimentazione introdotta dai suoi due corti elaborando un’elegia visuale a partire dall’idea di isolamento.
Il bianco occupa le prime inquadrature del film, è un orizzonte senza profondità e solamente dopo qualche minuto distinguiamo un paesaggio completamente innevato sconvolto da una tormenta, con il profilo di una volpe sullo sfondo; la presenza dell’animale ci restituisce la percezione di un margine instabile, il confine di una dimensione che presto sarà nuovamente inghiottita dal bianco. È un segmento introduttivo che ci conduce direttamente all’interno di un osservatorio astronomico, dove Gunther è alla ricerca di pianeti fuori dal sistema solare, come ci suggerisce una didascalia esplicativa. È la prima di una serie di figure che si susseguono per tutto il film, accomunate da una condizione di isolamento, dove la registrazione di azioni ritualistiche diventa l’unica marcatura temporale che identifica la loro presenza nell’ambiente.
C’è Nitschke, un metereologo che segna i cambiamenti del tempo sotto forma di numeri; il Dr. Schmid, radioamatore da 53 anni che naviga tra le frequenze del suo baracchino in cerca di una voce umana. Oppure Mr. Mohrig, la cui vita è confinata in un caravan, esattamente come quella di Mr. Ruschen, dj anticonvenzionale che mette musica per i clienti di un’autoscontro.
Nicole Vögele, attraverso la registrazione dell’istante occupato dalle azioni quotidiane, costruisce una riflessione dolente sul rapporto tra tempo e morte, una percezione della fissità evidenziata dalla ripetizione del gesto, orizzonte visibile nel “tutto” della natura, che disegna il confine doloroso dell’esistenza insieme alla persistenza del rumore bianco, un drone che dalla tempesta nevosa si trasforma nelle vibrazioni di una discoteca, fino alle basse frequenze delle bande radioamatoriali.
Quando la foresta nella nebbia sarà scansionata da un maestoso movimento all’indietro, una voce maschile reciterà alcuni versi dall’ottava elegia Duinese di Rainer Maria Rilke, quella che descrive la finitezza della condizione umana, sguardo illusoriamente proiettato verso il futuro ma in realtà “rivoltato all’indietro”, rovesciato verso l’idea di morte che da sempre ci precede. Una differenza con l’occhio puro dell’animale, parte di quel tutto che non riusciamo a percepire, se non costruendoci la gabbia dove sopravvivere.
L’ultima immagine, dopo l’elegia di Rilke, è un’eco visiva delle parole del grande poeta, sullo sfondo del paesaggio innevato si scorge nuovamente la volpe, è al margine dell’inquadratura e presto scomparirà nell’orizzonte senza dimensioni di un bianco accecante.