Il lungometraggio di debutto del bernese Jeshua Dreyfus ha fatto il giro dei festival elvetici, uscendo poi dai propri confini e guadagnandosi alcuni premi tra cui il Ghepardo d’oro al festival di Tashkent in Uzbekistan. Ambientato nel paesaggio boschivo delle alpi svizzere, segue un gruppo di trentenni durante una breve vacanza estiva in una zona del Ticino separata dal resto del mondo da una cabinovia.
Con un incipit che potrebbe essere quello di un teen movie oppure di uno slasher poco prima del massacro, Dreyfus introduce la voglia di uscire dal quotidiano dei quattro ragazzi, un uomo e tre donne, a cui si aggiungerà Jonas (Oliver Russ), abbordato in una stazione di servizio da Fine (Anna von Haebler); i due, oltre alla coppia costituita da Babs (Jamila Saab) e David (Stefan Leonhardsberger) occuperanno la casa in pietra situata in mezzo al bosco, insieme alla proprietaria Mara (Karen Dahmen); un contesto apparentemente idilliaco che servirà al regista svizzero per forzare i confini relazionali del gruppo.
Quando una delle ragazze proporrà di fare una sorta di gioco della verità, con l’imperativo di essere sinceri fino a far male, si innescherà un meccanismo a catena dove il confine tra onestà e crudeltà, libertà ricercata e possesso agito, sarà sempre più sottile.
Il tentativo di Fine di sedurre Jonas, servirà alla prima per suscitare la gelosia di David, mettendo così a nudo una relazione parallela dei due, mandata avanti per un anno intero all’insaputa di Babs; un meccanismo circolare che Dreyfus accentua con continue agnizioni dove i personaggi sono adesso saggi, adesso infantili, adesso crudeli, senza una separazione cosi netta nonostante il loro desiderio di assumere un ruolo definito all’interno del gruppo
È un piccolo “Desordre” il film di Dreyfus, che continua a girare senza soluzione di continuità, spingendo il più possibile sull’esacerbazione dei sentimenti, quasi sempre sottolineati come per cercare disperatamente una conferma esterna che li renda credibili; la verità, qualsiasi sia, diventerà insopportabile per tutti quanti, portandosi dietro un accumulo di violenza e di risentimento interiore che non esploderà mai, tranne in alcune sequenze al limite, come quella davvero inquietante di Jonas che sfoga la sua frustrazione uccidendo un coniglio con un arco da competizione.
Anche in questo caso, la crudeltà di Jonas passa come un virus attraverso personaggi apparentemente più votati alla compassione, capaci un momento dopo di azioni slegate da qualsiasi forma di lucidità.
La generazione “precaria” di “Halb so wild”, lo è in una dimensione identitaria; diversamente da quel cinema che ce la mostra come vittima della società globalizzata, questa sembra tradurre su un piano collettivo le attitudini “always connected” dei social media, come se il profilo cognitivo che regola le relazioni tra i ragazzi fosse una continua demistificazione di quei valori a cui cercano spasmodicamente di attaccarsi: libertà, amore, onestà, comprensione.
E se la voglia quasi bulimica di vivere tutti gli istanti sembra attraversarli come un’energia libera, questa si traduce quasi sempre in un immobilismo di ritorno, entro i confini angusti di una serie di ruoli auto-imposti o auto-subiti, che delineano i rapporti nelle loro essenziali e brutali dinamiche di potere.
Come uno slogan da condividere su Facebook, i dialoghi dei cinque amici diventano reali solo per aver sottolineato un enunciato; perchè viverlo diventa improvvisamente e dolorosamente impossibile.
Con uno stile asciutto, quasi totalmente privo di musica extradiegetica, “Halb so wild” è un piccolo film a tratti sorprendente, forse ancora un po’ lontano dal saper sfruttare i vuoti della narrazione in modo realmente radicale, ma comunque interessante come opera prima e sopratutto, non così incline a lasciarsi andare ad un cinismo programmatico; alla fine Dreyfus, che ha l’età dei suoi protagonisti (tra l’altro, quasi tutti suoi amici nella vita) dimostra un sincero affetto per le loro derive senza sbocco.