Come scrive Maurizio Grande in un articolo del 1973 su Bianco & Nero e riportato nel booklet del dvd, Carmelo Bene, soprattutto in Nostra Signora dei Turchi, valica le barriere tra l’agire e la parola, scardina quei rigorosi codici fondati su una certa idea di tempo-successione, di spazio-disposizione, di ordine-valutazione, di prima e di poi dei valori intangibili. Sovverte quel linguaggio legato ad una certa visione del mondo e della realtà, alla ragione del logos.
L’intento principale di Nostra Signora dei Turchi è infatti la ricerca di una nuova poetica, nuova visione del reale e della storia, del mito e della memoria, dell’autobiografia e dell’immaginazione, una ristrutturazione della materia-senso e del linguaggio-stile.
Nella complessa e claustrofobica costruzione scenografica traspare quella che per Bene non è solo una distruzione dei funzionalismi dell’oggettistica, ma più che altro è il tentativo di intaccarne l’idea stessa, fino a risucchiare e scuotere il tormentato spettatore in un processo straniante ottenuto attraverso una costruzione scenica da horror vacui, tra luci accecanti dal suggestivo effetto stroboscopico RGB e un arredamento ricco di arabeschi e permeato di oggetti; spazio riempito, saturo e vacuo allo stesso tempo, svuotato dal suo senso, materia estraniata dal contesto oggettuale.
Nostra Signora dei turchi è in definitiva una liberazione dal linguaggio, un “disossequio”, come lo definisce l’autore stesso in un’intervista realizzata da Sandro Veronesi e contenuta negli extra del ricco dvd doppio. Un approccio al mezzo cinematografico scevro di qualunque dogma, di qualunque legge e stilema precostituito, paragonabile quasi al solfeggio di Rossini: puro abbandono, puro trionfo del significante sul significato.
«Il cinema è sempre dialettico, non ha la follia e la grazia del melodramma. Il cinema è solo significato, messaggio retorico. È solo volontà e rappresentazione, mai abbandono». Nostra Signora dei turchi ci appare allora come un film che non è un film. Non semplicemente un ribaltamento del corpus filmico, ma vero e proprio smembramento del corpo, oltre ogni sperimentalismo, niente a che vedere con il disfacimento del corpo professato da Bunuel, quindi. È invece un cinema che demolisce se stesso quello di Carmelo Bene: “cinema come demolizione dell’immagine” (sic!). Una separazione dal logos, celebrazione del significante espressa in un’estetica che conflagra e va in cortocircuito nello sfondamento del bianco commisto alla saturazione dei colori primari. Perché ciò che in primis tenta Bene è l’affondo alla riscoperta degli elementi primari costituenti dell’immagine filmica, dalla selezione dei colori ai luoghi, dall’uso degli obbiettivi al costante rimando all’occhio (il processo primario del guardare): immagini filtrate e riplasmate in una continua evocazione simbolica scandita da un montaggio frenetico, un conforming al cerchio, all’occhio, nelle luci pirotecniche sfocate che si scompongono in cerchi, negli specchi sferici, nelle aureole, nei mascherini dell’obbiettivo e nelle orbite buie dei teschi del reliquiario d’Otranto.
E a tal proposito giunge quindi indispensabile l’inserimento di quella misconosciuta opera prima che fu il cortometraggio Hermitage nei contenuti extra, che lo stesso Ghezzi, in una “videocosa” estremamente esaustiva definisce come “prova per le ottiche e per le luci: un provino per il cinema”.
Ed in questa effimera liaison clandestina, in questo tradimento verso il palcoscenico in un abbandono tra il caldo e seducente abbraccio del cinema, Carmelo Bene non tradisce però quel valore da sempre attribuito alla voce. Voce del corpo che vuole essere corpo, in un bisogno di emancipazione dal limite fisico, corporeo, organico: “La voce come soggetto. E tutto è soggetto quando è voce”. Una rivoluzione della struttura egemonica cinematografica, dove la voce acquista corpo mentre l’immagine riprodotta nel suo surplus diventa non cinema: ripetizione e sussulto dell’immagine, spezzettamento e frenesia del montaggio che introducono sempre la stessa cosa, mentre Bene stesso diventa materia sussultoria, evento tellurico. “Niente è definito. Ciò che si definisce è un’indefinitezza definita” dice sempre Ghezzi, che ci ricorda inoltre l’ammirazione di Bene per Buster Keaton, come in “The Cameraman” egli attuasse un primo sconfinamento e ribaltamento tra dentro e fuori, espresso nel convulso tentativo di essere dietro e avanti la camera, voler essere voce e corpo senza riuscirci, affannandosi in una corsa continua e disperata: Keaton mentre parla al telefono con l’amata cerca di raggiungerla anche col corpo. E quello di Bene è allo stesso modo un voler essere spazio “tra”, tra qui e là, dentro e fuori, voce e corpo, vita e morte. Oppure, usando le parole di Ghezzi, un doppio Nessuno, doppio Polifemo, doppio occhio unico e incompleto. Una necessità del duplice, uno sfondamento dello spazio limitante e conchiuso nei fotogrammi, rispetto al teatro. E non a caso Bertolucci definì Nostra Signora dei Turchi un film da Horror Vacui, senso di soffocamento e claustrofobia della costrizione: ingabbiamento della voce nel suo limite fisico – Il “ti perdono” ripetuto all’infinito che diventa violenza, asfissiante, claustrofobico, perde senso nella sua ripetizione convulsa, fino a diventare straniante, una formula vacua che si riduce in atto compulsivo, masturbatorio. Il sacro diventa stupro –.
Partendo dal concetto di Deleuze secondo cui l’autore deve essere straniero prima a se stesso, scisso dall’opera, non sorprende come i caratteri di questo capolavoro si imprimano in modo straniante sia per lo spettatore che per l’attore/autore stesso.
«Il cinema è festival dell’ibrido, celebrazione dell’arte, ma non è arte. È commistione di musica, letteratura, ecc. Per vedere un film bisognerebbe invece leggere L’Ulisse di Joyce o certi passi danteschi, in cui si fonde scritto e parlato. […] Il set diventa sex, illuminazione, autocompiacimento del set, erotismo o autoerotismo dell’autore» sussurra ancora la voce di Bene nell’intervista di Veronesi. «Differentemente da Artaud che ha tentato la smarginazione della pagina, la ricerca di odori, fetori al teatro, al cinema non c’è smarginazione, non va oltre la pagina, non sconfina, non può. Forse solo Sade di Pasolini ha delle cose che non appartengono al cinema». Non c’è quindi speranza che Bene persista nel fare cinema: un’arte nata morta (Bene), un fiore appassito (Ghezzi), Fiore del Male, a cui si oppone il Fiore del “Bene”.
In questa sfiducia nell’immagine si fa quindi largo la necessita del supporto narrato, acustico. Un’estetica che si fa etica attraverso l’invadenza della voce. Si legge nella poetica di Bene una nostalgia nell’immagine muta, non tanto quella del cinema ma della pittura. Il cinema ha distrutto la parola, rendendo necessaria e indispensabile l’analisi del linguaggio e del contro-linguaggio.
Carmelo Bene è ben cosciente del paradosso che rappresenta il cinema, quando afferma: «Non ci può essere qualcosa di immediato al cinema, perché va ricreato l’agire e l’agire è annullamento del sé, non è atto, è affondamento della lama, istantaneità poi attribuita all’atto in una fase postuma, successiva, non immediata». Nostra signora dei Turchi, quindi, tumula il cinema, in quell’anno nefasto che fu il ’68: l’anno più basso dell’umano escremento (come afferma Bene parafrasando Schopenhauer). Tumulazione, appunto, in un persistente richiamo alla morte che nel film sembra il costante leitmotiv, e che ritorna ancora, meno implicito ma più “criptico” nel cortometraggio “Ai Rotoli” firmato Daniele Ciprì e Franco Maresco, che arricchisce ulteriormente gli extra così organicamente selezionati dalla Raro Video in questa edizione del DVD distribuita da CG Entertainment. Sei minuti e mezzo di immagini in bianco e nero di tombe e lunghi carrelli che si muovono tra i loculi sepolcrali del cimitero di Santa Maria ai Rotoli di Palermo, mentre la voce di Carmelo Bene sibila viva e incorporea in una lettura monocorde del racconto Signorina Rosina di Antonio Pizzuto.
Il dvd doppio funge quindi da supporto e corredo perfetto al film, per addentrarci nel pensiero più autentico di Bene. Ma oltre le interviste, il booklet bilingue con articoli di Bellocchio, Grande, Manganaro, Aprà, Contini e Mancinelli, le scene curiose tagliate, la gallery di immagini sul set e il trailer originale, il supporto principale è rappresentato proprio dalla riscoperta del cortometraggio Hermitage, prodotto dalla Nexus Film Italia. Un’opera prima e primaria, perché riflessione sul dentro e il fuori, tra in quadro e fuori quadro, un film nel film, forse la più stravagante e originale considerazione sull’immagine e la cornice, nel senso esteso di cornice cinematografica. Il valore che attribuisce l’estetica cinematografica all’oggetto (il vaso di fiori legato al brano extradiegetico che si attiva solo al rivolgersi dello sguardo della camera ad esso) è un riferimento stesso al rapporto tra Bene e il cinema. L’immagine assume un senso e un significato diverso rispetto al filtro di cui si dota lo sguardo, la caleidoscopica immagine con sottofondo musicale diventa iconografia sacra e spoglia da questi costrutti estetici e si ridimensiona come semplice corpo, materia. Un occhio che si muove tra sacro e profano, tra carne e spirito, tra dentro e fuori, tra uomo e donna, tra realtà e finzione, tutto basato sul ricorso ad un colorismo esasperato, finzionale, policromie e monocromie (tutto si tinge improvvisamente di rosso), come un uscire fuori e andare al fondo allo stesso tempo, affondo all’origina dell’immagine, ai caratteri disgiunti dalla fusione costituente, dal diluire coloristico che dà vita all’immagine. Varietà cromatiche di luci da palcoscenico su sottofondo di musica lirica. Ma è una policromia che entra in corto circuito con il bianco totale della toilette, dominante e invadente, dove Bene sembra affrontare un’analisi intima, la penetrazione nella sua anima. “Vienimi dentro” dice la voce senza corpo, sottofondo all’immagine riflessa della donna-santa-madre sulla superficie lattea e lucida di una vasca, per poi essere risucchiata nel gorgo e nello scarico del water, come secrezione organica e orgasmica in un post-coito autoerotico.
Carmelo Bene si scaglia violentemente contro gli usi e gli abusi generici, troppo facili e banali della macchina da presa. Rivendica così la straordinarietà dello strumento cinematografico e la sua capacità di oltrepassare i limiti della natura e della logica. Ma la sua dichiarazione di intenti, in definitiva, suona decisamente utopica.
Le riflessioni di Bene sul cinema sono d’altronde “echi del deserto… desiderabili echi del deserto”, come disse Julio Bressane. E da leggere, a tal proposito, è il suo testo del 1970 “L’occhio mancante”, in cui si chiede: «Perché ogni realtà “interna” al cinema deve essere a tutta forza giustificata dalla sua equivalenza ad una realtà esterna? […] Perché il “colore” è obbligato a uniformarsi alla stupidità della natura? Perché mai la “sequenza” è solo logica? Perché l’arte deve essere la vita? Chi lo ha detto che la vita deve essere “questa vita”? Rinascere non è tornare indietro». Servendosi così della macchina da presa per “farne altro”, con Nostra Signora dei Turchi arriva forse a dar vita, attraverso l’anti-cinema, a ciò che è davvero cinema.