venerdì, Novembre 22, 2024

Oculus di Mike Flanagan: la recensione

L’immagine allo specchio e l’immagine video: occhio soggettivo e occhio oggettivo. Tra relativismo e visioni perturbanti, Mike Flanagan apre profonde riflessioni sul valore testimoniale dell’immagine e la memoria dell’individuo

Paolo Bertetto nel suo libro Lo specchio e il simulacro parte dall’assunto nietzschiano secondo il quale al mondo “non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Un concetto puramente relativista, di base ad un testo che, nell’ambizione di accorciare sempre più la distanza tra cinema e filosofia (sui passi di Deleuze), mette in campo riflessioni sulla realtà, la finzione, l’immagine. Il valore metaforico che assume lo specchio, e di cui largo uso ne ha fatto da sempre il cinema, giunge in modo pertinente ad avvalorare gli argomenti dal forte riflesso esistenziale.

La visione del film Oculus di Mike Flanagan non può non riportare alla mente simili ragionamenti. Una trama che mette in campo temi metacinematografici, spingendosi fino a lambire questioni propriamente filosofiche, dal pensiero relativista fino al Lichtung heideggeriano; ad un intreccio di eventi che sembra più la metafora di una ricerca ontologica, il tutto farcito da un intelligente e mai abusato gusto orrorifico.

La ricerca della verità, che i due fratelli Tim (Garrett Ryan) e Kaylie (Annalise Basso) portano avanti, si inquadra quindi come  una ricerca interiore. Un’indagine nei recessi della propria mente, nella loro memoria, nei loro ricordi contrastanti (relativismo). La forza maligna che i due cercano di sgominare risiederebbe in uno specchio; un elemento che avvalora ulteriormente la reale lotta contro demoni interiori, una lotta contro se stessi e il proprio traumatico passato, combattuti tra il desiderio e l’impossibilità di dimenticare.

Un film quindi che, per le sue caratteristiche espressive e la sottesa filosofia, si avvicina più al cinema di David Lynch o al thriller psicologico di M. Night Shyamalan. L’uso del mezzo video di cui fanno uso i due ragazzi per documentare la realtà oggettiva degli eventi, di contro alle soggettive allucinazioni, apre altre e più complesse riflessioni sulla contemporanea era della multimedialità e sul valore che hanno assunto le immagini nella nostra società. Proprio sulla scia dei lavori di Lynch, in primis Strade Perdute, ma ancor di più al Blackout e New Rose Hotel di Abel Ferrara, la testimonianza video assume uno statuto di verità. L’immagine come evento ontologico, si direbbe. Una immagine – che sia quella video delle riprese effettuate dalle videocamere dei due ragazzi, o quella dalle foto che Kaylie mostra al fratello per dimostrare la reale esistenza delle precedenti vittime dello specchio – che assume, nella sua essenza simulacrale uno testimonianza di verità.

In un’era in cui il proliferare delle immagini invade sempre più la nostra esistenza, la minaccia potrebbe risiedere nell’impossibilità di cancellare, di dimenticare, perché eternato dallo scatto fotografico o dalla ripresa video. Un valore testimoniale che si fa garante di verità, di contro alla labile memoria dell’individuo, soggetta all’oblioso influsso del tempo.

Ma questo ricordare, questo bisogno di verità, può davvero aiutare ad esorcizzare i propri demoni? In tal senso i punti di vista di Kaylie contrastano con quelli di Tim, l’una ansiosa di rievocare il passato, dove rintracciare la realtà degli eventi, l’altro desideroso di dimenticare per sempre e vivere la vita al presente. La costruzione dei personaggi che attua Flanagan converge proprio a sottolineare queste due contrastanti tendenze: Kaylie è colei che organizza il progetto per svelare l’influsso maligno dello specchio dotandosi di un complesso equipaggiamento di videocamere e dispositivi tecnologici; mentre Tim è di contro impacciato, lo vediamo usare per la prima volta un cellulare, e propinare continuamente una versione più blanda degli atroci episodi della loro infanzia. Kaylie quindi associata al mezzo video, a quello statuto di verità; mentre Tim ne rifiuta invece l’uso, limitandosi a vivere il presente.

In definitiva, volendo attuare una lettura lynchiana alla pellicola di Flanagan, la presenza demoniaca, gli eventi di sdoppiamento, il destabilizzante intrecciarsi e fondersi di eventi del passato e del presente (in cui il racconto è abilmente strutturato), non risultano altro che il riflesso di un mondo interiore, in una metafora sublimemente visionaria. La rielaborazione degli eventi traumatici da parte dei due ragazzi risponde forse a quella teoria psicanalitiche del fuzzy trace (traccia sfocata), e tutta la realtà diegetica a cui assistiamo non risulta altro che l’immersione nel loro universo mentale, abitato da demoni e figure familiari dall’aspetto mostruoso, una vera e propria proiezione di quell’Unheimliche freudiano.

Mentre l’ancor più terrificante realtà sembra invece risiedere nella depravazione del nucleo familiare. Quella famiglia americana piccolo borghese da cui i due provengono, corrotta da ipocrisie e non accettazioni dei meno trascendentali tradimenti del padre, malattie della madre e fomentazione alla violenza nel gioco (li vediamo giocare da piccoli con le pistole, fino a sparare realmente al padre). Una critica socioculturale allusa, che si avvalora tramite quel disturbo dissociativo dell’identità del padre e la reazione verso i figli, a cui ripete convulsamente “va tutto bene” e che chiama con i tipici appellativi da famigliola felice “principessa” e “campione”.

L’espediente dello specchio assurge appunto ad immagine speculare della situazione sociale e psicologica dei protagonisti. La realtà in cui sono immersi è quella destabilizzante e “multiriflessa” di una mise en abyme identitaria, dove la propria immagine (reale) si perde nella miriade di specchi, simulacri, ricordi e auto-rappresentazioni. Un film denso, moderno, importante. Da vedere.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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