Sembra, in effetti, che nulla cambi se, mutatis mutandis, dalle strade malfamate di Mumbai alle sterminate distese polverose fra Messico e USA il confine tra il male e il bene resta frastagliato e incerto, e benchè i colori del paesaggio non siano gli stessi è sempre uguale il colore dell’uomo. Resta da vedere se il passaggio da Bollywood a Hollywood è indolore anche sul piano più strettamente cinematografico.
Broken horses è sostanzialmente un racconto di formazione.
Il ragazzo Buddy (Chris Marquette da adulto) ha una lieve disabilità mentale, ma suo padre (Thomas Jane) sceriffo con tanto di stella e uniforme, lo tratta da bravo ometto e lo ammira per l’abilità di tiratore: “E c’è gente che dice che sei lento!”.
Mentre Buddy spara alle sagome qualcuno uccide il padre alle sue spalle. L’uomo cade e un sudario bianco volteggia fino a coprirne il volto, macchiandosi di rosso. E’ un foglio del tiro a segno volato via e planato al punto giusto. Buddy comincia a crescere da questo momento, la sua lentezza sarà la sua forza, nella breve vita che vivrà questo sarà il coagulo da cui si sprigioneranno odio e amore in dosi uguali e allo stesso modo micidiali.
Jacob detto Jackey (Anton Yelchin) è il fratello piccolo, bravo apprendista di violino. I due ragazzi ora sono soli nella prateria. La fattoria, qualche cavallo, uno chalet malandato sul lago vicino è tutto ciò che hanno, e intorno c’è un mondo di fuorilegge e poliziotti corrotti che preme, gangs rivali e giro di soldi facili.
Come conciliare Paganini con tutto questo? Come sottrarre al fango l’innocenza dell’uno e l’incontenibile amor fraterno dell’altro?
E’ quello che il film racconta in un crescendo che oscilla fra l’agghiacciante crudezza degli episodi di violenza e la tenerezza reciproca dei due fratelli, la loro ostinazione a proteggersi l’un l’altro e lo stupro sistematico messo in atto dal destino e dagli uomini sulle loro vite.
Vinod Chopra si cala dentro i personaggi disseminando indizi, così succede che una frase breve, qualche parola buttata lì, come a caso, raccolga il senso di una lunga storia a monte e la trascini fino a quella soglia critica dove le parole abbandonano e accadono i fatti.
Punti di torsione dell’intreccio sono i momenti in cui ad ognuno dei due fratelli tocca scegliere fra due strade e la caparbietà del protagonista nel perseguire la missione che si è imposta (difendere il fratello e uccidere gli “uomini cattivi”) si annoda alla manipolazione della sua mente ritardata operata dal violento Giulio Hench (Vincent D’Onofrio). Viscido boss di frontiera, Hench si è abilmente mimetizzato nelle vesti di padre surrogato e dalla sua base operativa, un vecchio cinema dal nome fin troppo evocativo, “The Alamo“, ha plagiato per anni Buddy facendone un natural born killer, sicario senza paura nelle guerre tra bande di confine.
Gli “uomini cattivi” da abbattere come quello che uccise suo padre sono tanti e così, da ragazzo a uomo, sono passati quindici anni mietendo vite.
Da otto anni Jackey è assente, la sua carriera di violinista a New York City è in crescita e la dolce Vittoria (Maria Valverde) sta per impalmarlo. Qualcosa l’ha tenuto lontano da quella frontiera, ma per Buddy nulla è cambiato, gli basta che il fratello stia bene e i suoi studi proseguano con i suoi finanziamenti. Uccidere per questo gli sembra la cosa più giusta e naturale del mondo. Ora però Jackey sta tornando per ricevere il gran regalo di nozze a sorpresa di Buddy, lo chalet sul lago trasformato in nido d’amore per i futuri sposi, con il magnifico cavallo bianco promesso tanti anni prima. Lì, secondo Buddy, vivranno tutti insieme per il resto della loro vita.
Lo stupore di Jackey è pari alla sua disperazione nel constatare per gradi successivi la qualità della vita di Buddy. Quello che accadrà d’ora in poi sarà un precipitare di eventi dietro i quali si farà fatica a stare. E’ la seconda parte del film, dove le buone premesse della prima si perdono in una serie di cadute manieristiche fatte di svolazzi di regia e trovatine illustrative che rompono la compattezza del prologo e la buona tensione che se ne sprigionava. Tutto si fa intricato ma anche prevedibile, al limite del déjà vu, e non perchè si tratta di un remake.
Tra atmosfere western e iperrealismo da gangster movie, il film stenta così a trovare una strada e non bastano Tom Stern, il fotografo preferito di Clint Eastwood di cui ben conosciamo la predilezione per i colori saturi e gli interni bui e polverosi, nè l’ ottima performance di Chris Marquette a neutralizzare certi barocchismi e il didascalismo che a tratti l’affligge. La sensazione è che il regista abbia esaurito i suoi buoni argomenti nella prima parte del film ed ora cerchi un modo per uscire dal ginepraio che si è formato ricorrendo a sviluppi della narrazione fuori fuoco.
L’impressione è dunque di un film pieno di buone intenzioni ma di miccia corta, che soffre, per di più, dello spaesamento che nasce nel confronto con l’ottimo modello originale.