Maarit dopo un’esistenza da uomo e una figlia condivisa con la moglie, decide di cambiare sesso. Noi la troviamo già nel pieno della sua nuova vita, mentre lavora per un’agenzia di pulizie, i rapporti con la ex moglie sono ancora tesi e quelli con la figlia in attesa di trovare una strada più comunicativa. Presto incontrerà Sami, un allenatore di calcio, insegnante, felicemente sposato, che cercherà di sedurre in modo non troppo ortodosso, sostituendosi alla sua psicoterapeuta per un paio di sedute; questo le consentirà di entrare in contatto immediato con l’intimità sessuale dell’uomo, percepirne le rigidità, comprendere che il suo menage familiare è irrimediabilmente congelato. Il disvelamento non tarderà ad arrivare e dopo una dichiarazione esplicita da parte di Maarit seguita da un rifiuto netto di Sami, l’uomo non riuscirà a starle lontano e darà inizio ad una relazione che si complicherà quando il percorso identitario della donna si manifesterà in modo inequivocabile. Se Maarit deve quasi sempre confrontarsi con un contesto sociale che la accetta al confine di una tolleranza ipocrita, lo stesso Sami dovrà fare i conti con un sentimento contrastante, ovvero una fortissima attrazione per la donna e un rifiuto netto, violento, a tratti brutale della sua storia, come se quel passato identitario non potesse coincidere con la verità e l’immediatezza di un sentimento.
Simon Halinen realizza il secondo lungometraggio a distanza di più di dieci anni dal suo debutto, con la produzione di Liisa Penttilä-Askainen per la Edith Film, branca della Zentropa di Von Trier con il quale aveva già co-prodotto Dogville e Manderlay. Il regista Finlandese ha dichiarato più volte di essersi ispirato al cinema dei sentimenti di Susanne Bier, confermando un maggiore interesse nei confronti della relazione degli individui con il proprio sentire rispetto alla tematica transgender “tout court”; Halinen infatti segue i suoi personaggi fino a quel limite oltre il quale non è più possibile esprimere la verità di un sentimento; solo la capacità e il coraggio di infrangere questa distanza di sicurezza, consentirà, per esempio a Maarit e a sua figlia di stabilire un’empatia più forte al di là di qualsiasi pregiudizio; l’attenzione al percorso identitario della donna viene allora assorbito da una prospettiva più inclusiva che non è necessariamente il segno di una marginalizzazione superficiale, ma semplicemente la percezione del mutamento dei propri desideri come una via necessaria per la conoscenza di se.
Come molte produzioni Finlandesi contemporanee, il film risente di una drammatizzazione di matrice televisiva predominante senza particolari guizzi registici e con una forte centralità degli attori; oltre ad interpeti molto noti in patria come per esempio Peter Franzén nella parte di Sami, emerge sicuramente Leea Klemola, al suo secondo film per il cinema dopo una lunga carriera come attrice televisiva; la sua è un’interpretazione molto intensa e non così distante da quella di Paulina Garcia in “Gloria“; la Klemola ha la stessa capacità di assorbire tutte le dinamiche contrastanti dei personaggi di contorno, con le caratteristiche di una donna forte e irrimediabilmente sola, alla ricerca della propria autodeterminazione.