Il cinema americano di Gabriele Muccino ci fa venire in mente quello di Franco Zeffirelli dei melodrammi famigliari anni ottanta, The Champ e sopratutto Endless Love. Senza l’estetismo del regista fiorentino e la patina luminosa della fotografia curata da David Watkin, si respira un’aria simile, che da una collocazione distante guarda sicuramente al cinema che Zeffirelli osservava nascere da vicino, quello delle “ordinary people” di Redford, Benton, Bill Forsyth e poco più tardi il Bruce Beresford di Tender Mercies.
Padri e Figlie è il film più vicino a quest’aura tanto da oscillare tra gli eccessi della sceneggiatura scritta dall’esordiente Brad Desch e una maggiore attenzione alla formazione dei sentimenti gestiti dagli attori. Se il testo in qualche modo stimola il regista italiano a quel descrittivismo verbale che deve per forza dare un nome alle sensazioni e ai processi interiori, quando Muccino si dimentica com’era il suo cinema di qualche anno fa, lascia liberi i suoi interpreti di abitare gli aspetti più oscuri delle proprie ossessioni.
Russel Crowe esprime il rapporto del suo personaggio con l’epilessia attraverso una straordinaria fisicità in grado da sola di creare una piccola deriva, mentre Amanda Seyfried esce dalla post-adolescenza dei suoi personaggi più tipici per assumere le caratteristiche di una figura dolente e disorientata, che nelle deambulazioni notturne ricorda in parte una delle sue interpretazioni più riuscite, quella di Chloe per Atom Egoyan, perduta in uno spazio tra presente e memoria.
Al contrario, si riconosce il Muccino più discutibile in quella tentazione al sentimento gridato che, irrimediabilmente, finisce quasi sempre per manifestarsi con una scena madre in mezzo ad una strada. Ma al di là di questi brevi frammenti, sottolineati dall’esuberante sintassi di alcuni movimenti di macchina gratuiti, sembra che gli spazi del melodramma americano consentano a Muccino di ricostruirsi un’identità cinematografica più pregnante e specifica rispetto all’angustia di certo cinema italiano.
Certo, Padri e Figlie non ha quella forza palindroma capace di rovesciare lo statuto del melodramma stesso a partire dagli sconfinamenti più arditi e che nel cinema di Benton e di Redford, puntava allo svuotamento della sicurezza borghese dal suo interno, come avveniva in Kramer contro Kramer o in Ordinary People, film dove gli oggetti e gli arredi avevano un peso fondamentale anche in relazione ai sentimenti dei personaggi.
In questo senso Muccino, come Zeffirelli negli ottanta, sembra occupare una strana dimensione aliena, per certi versi fuori tempo massimo anche per il melò contemporaneo, ma altrettanto distante dai film che produceva qualche anno fa; una linea di confine che rende il suo cinema più eccessivo e irrisolto, proprio per questo decisamente più vivo.