I primi quindici giorni di luglio in Iran si sono avvicendati sotto il segno della repressione violenta contro il dissenso interno, cementando una serie di azioni a catena inaugurate lo scorso maggio. Dalle recenti misure contro le proteste sindacali, che hanno condotto in carcere 20 lavoratori della miniera di rame di Sungun nella provincia dell’Azerbaigian orientale, fino alla sterzata fondamentalista che impugna il rispetto radicale delle leggi che dal 1979 regolano le modalità per indossare l’hijab.
La recrudescenza di quelle indicazioni, progressivamente allentate, torna a colpire con il pugno di ferro della Repubblica Islamica, attraverso una serie di dichiarazioni e provvedimenti congiunti del presidente Ebrahim Raisi e del leader supremo della teocrazia islamica Ali Khamenei. Un ritorno alla forza bruta degli anni ottanta che si registra in vari settori della società e che colpisce con arresti, censura e repressione violenta i cittadini che non si conformano, che protestano o che semplicemente veicolano campagne di resistenza sui social media.
L’hashtag #no2hijab è la risposta degli attivisti e delle donne che hanno pubblicato contenuti audiovisivi di protesta dove si toglievano pubblicamente il velo, proprio il 12 luglio, giornata nazionale dell’hijab e della castità.
L’elenco delle restrizioni è ampio e investe anche i posti di lavoro, dove il rigore richiesto nell’indossare l’hijab aggrava il già ampio divario di genere nel paese, indice recentemente pubblicato nel rapporto del World Economic Forum, dove tutti i fattori che lo costituiscono, dal livello di istruzione alla partecipazione politica, economica e politica, colloca l’Iran tra gli ultimi cinque paesi del mondo, insieme all’Afghanistan sotto il dominio talebano e il Pakistan.
“Il Dio del 2022 è lo stesso del 1981“, l’annuncio dell’Ayatollah Ali Khamenei pronunciato lo scorso 28 giugno durante l’incontro con la magistratura iraniana, salda la “nuova” idea di paese a quella di quarant’anni fa, un ritorno al passato che mette al centro la censura delle attività su Internet con le limitazioni dell’accesso gratuito, verso lo sviluppo di un’intranet nazionale che dovrebbe sostituire il web per come lo conosciamo in occidente e che Reporter senza frontiere (RSF) cerca di contrastare almeno invitando la Abr Arvan, società responsabile del framework tecnico, a rescindere qualsiasi tipo di collaborazione con il regime di Teheran.
Quel riferimento al 1981, inoltre, si connette ad una stagione di incredibile violenza repressiva, dove tutti i partiti politici furono dichiarati illegali, i dissidenti uccisi, le libertà civili ridotte drasticamente. La paura del regime rispetto al livello di consapevolezza dei suoi cittadini viene camuffata come una battaglia contro un nemico esterno, legato alle supposte attività dei servizi segreti stranieri e quindi pericoloso per l’unità del paese. Ad aggravare la situazione una crisi economica difficile, causata dalle pesanti sanzioni reintrodotte da Trump a partire dal 2018 e da anni di pessima gestione.
In questo clima si inseriscono i recenti arresti di personalità di alto profilo, tra cui i tre registi Mohammad Rasoulof, Mostafa al-Ahmad e Jafar Panahi, insieme a Mustafa Tajzadeh, politico riformista dichiaratamente critico nei confronti del regime. La crisi economica, lo stallo tra Iran e potenze globali per quanto riguarda gli accordi sul nucleare, secondo gli osservatori e i ricercatori di Human Rights Watch, hanno spinto il governo del paese ad affrontare le difficoltà con l’arresto e la repressione delle personalità più ostili alle ricette della Repubblica Islamica.
Rasoulof e Al-Ahmad avevano pubblicato una lettera aperta che invitava le forze di sicurezza a deporre le armi, utilizzate per reprimere nel sangue la protesta civile del maggio scorso contro il crollo di un’edificio nella città di Abadan, tragedia che è costata la vita a 41 persone. Firmata da più di 100 personalità è costata l’arresto dei due registi e quello successivo di Panahi, che il 9 luglio scorso aveva pubblicato una dichiarazione insieme a 300 attivisti, per il rilascio dei colleghi.
Secondo l’agenzia stampa Mehr, Panahi sarebbe stato trattenuto nella prigione di Evin dopo essersi recato a parlare con i pubblici ministeri per il rilascio di Mohammad Rasoulof. Mentre questo e Al-Ahmad sono stati accusati di incitare i disordini e minare i fondamenti della sicurezza, motivazioni simili a quelle addotte per l’arresto di Tajzadeh, la moglie di Panahi, Tahereh Saeedi dichiarava alla stampa internazionale che la detenzione del marito equivaleva ad un rapimento illegale, compiuto senza un giusto processo e solo in seguito ad un’attività di protesta pacifica.
Ricordiamo che Panahi era stato già arrestato nel 2010 in seguito al sostegno delle proteste contro il governo, per le elezioni presidenziali dell’anno precedente. Sei anni per propaganda antisistema, con il divieto di girare film e di viaggiare all’estero per una durata di 20 anni.
I festival di Cannes, Berlino e Venezia hanno condannato fermamente gli arresti e l’onda di repressione contro gli artisti, in corso in Iran.
In realtà, come abbiamo visto, il contesto è molto più ampio e riguarda il tentativo sistematico delle autorità di seminare paura nella società e spostare le lancette dell’orologio indietro di un quarantennio. La consapevolezza di una situazione economica che può solo peggiorare, attiva il riflesso della repressione preventiva, cominciando proprio da coloro che hanno maggiore visibilità e coraggio civile nel contrasto alle politiche del regime.