In uno scenario imprecisato dell’est europa, il primo lungometraggio dell’australiano Ariel Kleiman sceglie di chiudersi entro lo spazio delimitato dai classici blocchi abitativi. Gregori (Vincent Cassell) vive nei bassifondi, in una zona difficilmente accessibile dall’esterno e controlla una comunità di madri e bambini, rispetto ai quali si occupa di tutti gli aspetti legati alla loro formazione. Tutto ha l’apparente essenza del gioco, dai piccoli lavori quotidiani allo studio, fino agli esercizi al poligono di tiro, dove i bersagli sono alcuni palloncini colorati. Ma la parte innocente di questa micro-società viene impiegata da Gregori per abbattere alcuni obiettivi designati, addestrando gli adolescenti all’omicidio su commissione; atti di improvvisa violenza che oltrepassano in modo ambiguo il confine con il gioco.
Senza dover per forza precisare i numerosi rimandi a cui il film sembra ispirarsi, non ultimo certo cinema greco definito a partire dal recinto di sicurezza dell’autorialità, Partisan è un film innegabilmente chiuso in un piccolo universo simbolico che sostituisce, negativamente, la libertà dello sguardo intesa come scoperta progressiva, con la chiarezza accecante del segno. Un aspetto non da poco per un film che vorrebbe percorrere il doloroso processo della perdita dell’innocenza, e dove tutti gli elementi del set sembrano puntare alla definizione, anche coloristica, di un’immagine sin troppo precisa e allegorica, pur nella confusione dei riferimenti socio-politici, che sembrano alludere ad una Storia che dall’occidente procede verso il medio oriente.
Il lavoro di Kleiman, elaborato insieme alla compagna Sarah Cyngler, punta per certi versi all’universalità del mito e agli archetipi della fiaba, ma non è in grado di interagire con il flusso della Storia politica e sociale come, per esempio, accade nel cinema di Philip Ridley, meno esplicitamente “politico” ma dove il contrasto tra fiaba e realtà si manifesta come una ferita tra i due mondi, desunta da una lettura intelligente della tradizione surrealista.
Da quella stessa tradizione Kleiman si fa stordire, e ci stordisce, con l’accumolo di simboli, ovvero servendosi dell’accezione più superficiale e con il continuo e insistente ricorso ai colori, le macerie, il gioco, tanto da assorbire completamente lo spazio visivo senza osare, dolorosamente, la distruzione di quel recinto, avvicinandosi con più onesta allo sguardo infantile.