Cambia nuovamente penne Paolo Genovese e si affida a quella televisiva di Paola Mammini (I Cesaroni, La Squadra), al regista sceneggiatore Paolo Costella (I Love ornella muti, Ricky & Barabba, Bellifreschi e il recente Matrimonio al Sud, tutti da lui diretti) e infine al quasi esordiente Filippo Bologna.
La concertazione del set è quella corale preferita dal regista romano ma con una concentrazione drammaturgica che si allinea a quei film italiani recenti immaginati a partire dalle terrazze di Scola e dal massacro polanskiano in un interno, quello di Carnage appunto.
Sembra quasi un piccolo sottogenere, dopo Il nome del figlio e il più recente Dobbiamo Parlare (senza ovviamente contare Sorrentino e altre “coralità” desunte) destinato a offrire rare eccezioni alla regola, tra queste il film di Rubini, certamente il migliore e quello che spezza l’unità drammatica introducendo false soggettive, un lavoro molto specifico sui piani della visione e una relazione attiva tra oggetti e personaggi, che ci ricorda il talento del regista pugliese nell’inseguire uno sguardo cinematografico anche in spazi angusti e di derivazione apparentemente teatrale.
Non è così per il film di Genovese, quasi peggiore del suo precedente Sei mai stata sulla luna, nonostante si cerchi una deriva cinica in stile “Lo scopone scientifico”che non è per forza sinonimo di intelligenza e di apertura dello sguardo.
La cena e la circolarità degli intrecci verbali avrebbe potuto essere un lungo tour de force attorno ad un tavolo tra gesti, frasi dette a metà e allusioni, se non prevalesse la costruzione simmetrica delle situazioni così oppositiva rispetto al motore situazionale di qualsiasi commedia, con i cellulari come attrattori del senso e la parola declamata a suggerirci una lettura forzatamente morale dello sfascio emotivo e relazionale tra un gruppo di amici. Anche l’unica allusione lanciata come un sasso nello stagno da Alba Rohrwacher che lascia intendere un interesse affettivo nei confronti del personaggio interpretato da Giuseppe Battiston, viene poi riagganciata alla conclusione, con quel bacio in bocca che lascia il segno del rossetto, quasi ad indicare una comunanza che va oltre le apparenze e il meccanismo reiterato della menzogna, ma scegliendo appunto la stessa modalità che attraversa tutto il film: quella di un’esplicita messa in scena della parola che appiattisce le immagini allo stesso livello, senza creare un contrasto che si stacchi da quello che viene pedantemente sottolineato.
I personaggi del film di Genovese, tutti affidati ad attori validissimi, pensano a voce alta, raccontano i propri dissidi sopra l’immagine, con quel gioco forzato dei cellulari che vorrebbe raccontarci la mutazione cognitiva e antropologica attraversata da nuove e vecchie generazioni a contatto con i nuovi dispositivi, “scatole nere della nostra vita”.
Persino l’ipotesi che tutto si svolga in una dimensione immaginale, attivando quella posticcia “sliding door” conclusiva, indirizzata nuovamente verso un presente di menzogne e ipocrisie, è una dimensione disonesta del racconto, che invece di offrirci una ulteriore possibilità di lettura, contiene all’interno e implicitamente tutto il portato moralista e paternalistico del film, senza aggiungere niente che spezzi l’inesorabilità di un massacro progettato a tavolino.
L’immagine, quando occupa il centro, sia che si tratti del rossetto della Rohrwacher o dell’anello che la stessa lascia roteare sul tavolo, ha lo stesso valore piatto della parola, sottolineandone la pesantezza.
Bravi attori si diceva a cui viene impedito di uscire da una dinamica concentrica, senza via di scampo, battute a parte