venerdì, Dicembre 27, 2024

Pixels di Chris Columbus: la recensione

Non importa che il teatro sia quello caotico di Scott Pilgrim o il dramma di Ralph Spaccatutto imprigionato in uno schema di programmazione, la quest è sempre la stessa: salvare il proprio mondo dal collasso e ristabilire un’identità affettiva, per poi accorgersi di esser parte di un universo già visto, come Haley Joel Osment dentro il nastro di Moebius della propria vita

In questo senso il contrasto tra mondi digitali e cinema come esperienza collettiva, con Adam Sandler a far da ponte tra i due mondi, nel nuovo Chris Columbus ripercorre in parte tutti gli stati di passaggio tra immaginario digitale e cultura pulp, con gli innesti National Lampoon e quelli dell’animazione computerizzata di era catodica, attraverso espliciti riferimenti a chi come Annabel Jankel quel passaggio lo aveva sperimentato giocando con l’animazione ibrida attraverso i videoclip, creando Max Headroom e realizzando insieme al compagno Rocky Morton la versione cinematografica di Mario Bros.

Max Headroom compare nel film di Columbus come molti altri segni degli anni ottanta, sottoposti allo stesso trattamento simulacrale, da Ronald Reagan a Hall & Oates, elementi di una cultura enciclopedica che esondano dal mondo videoludico o dalla memoria dei nuovi archivi di ri-condivisione di massa, come schegge impazzite che si mangiano la memoria del mondo, illudendoci di conservarla. La Jenkel lo aveva capito benissimo quando girava i (bellissimi) video per Miles Davis, Donald Fagen o Elvis Costello elaborando una versione ibrida, tecnologizzata e frattale delle sperimentazioni di Len Lye e dello stile UPA.

In fondo, la stessa anarchia furibonda che cerca di sottrarsi alla pixelizzazione come atto di resistenza di un cinema fisico e demente è irrimediabilmente parte di questo stesso archivio globale, il cui effetto più nefasto è proprio il negozietto di memorabilia o peggio ancora, la nostalgia per una certa fenomenologia famigliare. Che lo si voglia o no, non è Pac-man, che minaccia il mondo, ma è quel mondo stesso ad esser già fatto della stessa materia di Pac-man. Frammenti di un immaginario ricombinato, dentro al quale ci siamo tutti, pixel dopo pixel.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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