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R100 di Hitoshi Matsumoto: la recensione

Il nuovo film di Hitoshi Matsumoto, uscito in Giappone ad ottobre, sta facendo il giro dei Festival internazionali, dopo la presenza al Toronto Film Festival nella sezione Midnight Madness ha proseguito il suo corso al Sundance Film Festival, al Festival internazionale di Rotterdam, a quello del nuovo Cinema di Montréal, al festival internazionale del Film di Busan, al CPH PIX, e recentemente all’appena concluso Hong Kong International Film Festival. Ancora inedito nel nostro paese, ha suscitato reazioni contrastanti sopratutto tra la stampa anglofona, più a suo agio evidentemente con il contesto apertamente surreale che Matsumoto allestiva nei suoi primi film. R100 è da un certo punto di vista più vicino alla struttura tradizionale del precedente Saya-zamurai, probabilmente il suo titolo più “narrativo”, ma allo stesso tempo nasconde una complessa struttura nidificata che consente all’autore giapponese di lavorare su temi a lui cari. Il risultato è ancora più destabilizzante, perchè se il set di Symbol era in fondo una geniale macchina autoctona, quello di R100 entra con una certa forza nella realtà famigliare e politica Giapponese aprendo una serie di squarci tra sogno e realtà che gli consentono una feroce iconoclastia di fondo anche nei confronti della sua cultura.

Takafumi Katayama, interpretato da un notevole Nao Omori (Ichi the killer) è il classico uomo comune a cui Matsumoto ci ha abitutato, costretto a vivere un’incredibile esperienza fuori dalla realtà conosciuta; la sua passione segreta è il Bondage, unica fuga parallela ad una vita sempre uguale a se stessa, assorbita dall’impiego in un negozio dove rappresenta articoli per la casa. In un’apertura urbana verso l’ignoto, firmerà un contratto con un club esclusivo, le cui clausole rigidissime includono l’obbligo di farsi maltrattare per un anno intero da un gruppo di dominatrici assortite, equipaggiate con frustini, pelle nera, morso con palla.

Già dall’inizio, lo spazio è filmato come improvviso slittamento di senso, Matsumoto non ci fornisce coordinate narrative sufficienti, la logica è quella di un’improvvisa spaccatura di matrice quasi Lynchiana, tanto che le torturatrici di Katayama si manifestano nei contesti più impensabili in mezzo ad una strada isolata, all’interno di un Sushi bar, dentro la sua abitazione. Il quotidiano allora erompe violentemente nel continuum onirico, quasi fosse una dimensione che sostituisce la sua pregranza e priorità con quella del sogno; è per esempio la relazione con il figlio piccolo e la presenza della madre e moglie costretta in un letto di ospedale da un coma irreversibile; momenti in cui la sofferenza ricercata da Katayama acquisisce un senso diverso, come quello di una sublimazione necessaria.

Ma non è solamente il doppio movimento di entrata e uscita d/alla realtà quello che costituisce la complessa stratificazione di R100, perchè a poco a poco scopriremo uno dei significati del titolo, legato alla proiezione privata di un film appena realizzato da un regista ultracentenario che assume quasi la posizione di un saggio e impotente demiurgo. Seduto in sala di proiezione il vegliardo se la ride beffardamente mentre osserva il calvario sadomaso del povero Katayama, personaggio del suo ultimo film estremo, interrotto costantemente dagli impiegati dell’organismo di censura che lo stanno visionando con lui. R100 è allora la formula “Restricted” applicabile ad uno spettacolo intollerabile, quasi una traduzione simbolica di un paese che non riesce più a relazionarsi in modo esplicito con le proprie pulsioni.

Con questo strattagemma Matsumoto indirizza le sofferenze di Katayama direttamente allo spettatore, introducendo un discrimine morale che si identifica con una versione autoritaria della coscienza. Ma al di là dell’aspetto concettuale, R100 è ricco di sequenze irresistibili dove la commedia nasce proprio da quel meccanismo apparentemente tipico che sovrappone l’epifania magica in un contesto quotidiano, qui rovesciata nel suo opposto perverso.  L’aggressione nel Sushi Club dove ogni maki-sushi viene spappolato da una mistress prima che Katayama possa mangiarlo, le percosse in mezzo di strada, l’apparizione della Queen-Saliva che scaracchia sul poveruomo con una veemenza da supereroina, i colpi di Kung-fu al ristorante; sono solo alcuni momenti del film di Matsumoto, condotti con quel gusto per il rovesciamento dei costumi nazionali che in parte sembra riferirsi alla sarcastica irriverenza del grande Juzo Itami.

“L’inconsistenza del plot” allora, per riprendere uno degli adagi preferiti dalla stampa Americana, serve a Matsumoto sia per lavorare sul funzionamento più scabro e ritmico della commedia, sia per costruire uno dei suoi viaggi nella dimensione psichica individuale, che in R100 apre anche ad una riflessione di tipo politico, filosofico e religioso. Sarebbe complesso in questa sede passare in rassegna i numerosi riferimenti, tra cui i continui inserti paranoidi dedicati alla possibilità che si verifichi un terremoto, la relazione tra famiglia tradizionale e pulsione erotica, la ricerca di un’estasi metafisica in un contesto globalizzato, e infine, in una geniale quanto ambigua chiusura, un desiderio di maternità che ricorda la fusione identitaria in molto cinema di Miike Takashi.

R100 è un film acuto e divertente e allo stesso tempo oscuro e disturbante; girato da Matsumoto con la direzione della fotografia di  Kazunari Tanaka in un rapporto dimensionale 1:85:1 e in 16 mm, restituisce un costante senso di straniamento anche in termini visivi, la grana della pellicola contrasta in modo esplicito con alcune incursioni digitali, mentre i colori desaturati puntano quasi al bianconero.  Oltre all’incredibile performance di Nao Ômori, il film è supportato da una parata di mistress formidabili (Mao Daichi, Shinobu Terajima, Matsuo Suzuki , Atsuro Watabe) e dalla surreale apparizione di Lindsay Hayward, nella parte del CEO del Bondage Club, una sorta di coscienza oscura occidentale che traghetterà lo spettatore verso la catarsi finale.

 

 

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