“…sogno di un sogno che sogna il sogno di un…”
Potremmo chiuderla qui, se non ci fosse un universo digitale a muovere tutta la filmografia di Quentin Dupieux, qualità che lo lega solo superficialmente a Lynch, Rivette, lo Chabrol di “Alice”, Nobuhiko Obayashi, giusto per tirar fuori le suggestioni di un cinema palindromo. Dell’immagine che sfalda se stessa dentro un’altra al Dj/regista francese probabilmente interessa il gingillo, la fascinazione per il meccanismo, il gioco combinatorio, il caleidoscopio alla Michel Gondry, quello più creativo che gira “Let Forever Be” per i Chemical Brothers, a sua volta rilettura senza corpi delle fantasie cinetiche di Busby Berkeley. Reality, secondo lo stesso Dupieux è quello tra i suoi che si avvicina ad un film “tradizionale”, dove il plot, seppur destinato a frantumarsi nella ripetizione minimal, esiste come terreno adatto ad uno slittamento progressivo del centro. Lo sviluppo avviene in una dimensione diacronica, nel tentativo di creare uno spazio virtuale tra sguardo e schermo, le cui posizioni vengono scambiate ogni volta. Dopo una ventina di minuti il trucco è chiarissimo, tanto che al di là della fascinazione masturbatoria per il rompicapo, potrebbe continuare all’infinito, o meglio ancora, interrompersi. La dimensione allora, contrariamente al nostro incipit, non è quella del “sogno”, ma la moltiplicazione dello spazio digitale, che rende Reality assolutamente identico a tutti i film di Dupieux come ulteriore variante sulla pratica del sampling e della destrutturazione non lineare nella prassi compositiva elettronica, ambito che il nostro conosce molto bene. Ne parlava Giovanna Farulli dopo la visione di Wrong Cops: rispetto al terrorismo selvaggio e plagiarista di Cattet-Forzani, Dupieux rimane sulla superficie del “groove”, il suo è un dancefloor House che punta allo stordimento. Poco importa se in questo caso sembra trarre ispirazione da “La fin absolue du monde” di Hans Backovic o dalla sala cinematografica dove si trova intrappolato John Trent; rispetto al maestro di Carthage, il musicista francese non cerca lo strappo nell’immagine, ma al contrario la chiude in un disegno virtuale senza uscita, perchè ciò che gli interessa è la fisiologia del dispositivo e non la creazione di uno spazio tra mente e corpo, immagine e memoria, processo cognitivo ed espansione di queste stesse facoltà in un ambiente connettivo digitale. Dupieux è fermo agli anni ottanta, lo dimostra il suo amore Nerd per tutto quello che è vintage (incluso le sue recenti produzioni musicali, vero e proprio trovarobato fighetto) e in questo senso, Reality è un cubo di Rubik che smette di stupire dopo un paio di giri.