domenica, Novembre 17, 2024

Regression di Alejandro Amenabar: la recensione

Ambientato negli anni novanta ad Hoyer, città di fantasia situata narrativamente nel Minnesota, il nuovo film di Alejandro Amenabar si apre al centro di un fenomeno di isteria collettiva documentato dai media e scaturito da alcuni rituali satanici che sconvolgono la cittadina. È un riferimento diretto, ma del tutto marginale a livello rappresentativo, di quel sottotesto che il regista spagnolo collocherà in una posizione centrale ed esplicativa legata al rapporto passivo che l’individuo mantiene con la società dell’informazione. Su questo sfondo, la vicenda di Angela Gray (Emma Watson), diciassettenne vittima di abusi sessuali da parte del padre e protetta dal male del mondo dal reverendo Beaumont, pastore della chiesa evangelista locale interpretato da Lothaire Bluteau.
Sulle tracce della verità c’è il detective Bruce Kenner (Ethan Hawke), confuso tra le dichiarazioni della ragazza, la follia mistica e integralista del padre rinchiuso in carcere (David Dencik), una famiglia disfunzionale, la polizia locale e una serie di personaggi di contorno che emergono come elementi di una realtà parallela di stampo quasi polanskiano.

Ad arricchire il quadro, il ricorso alle tecniche di ipnosi regressiva a cui vengono sottoposti alcuni testimoni chiave da un esperto del settore (David Thewlis). È a partire da qui che Amenabar elabora con uno stile rigorosamente piatto non troppo distante da certi legal thriller, quella discesa a spirale nell’incubo assottigliando sempre di più il confine tra realtà e immaginazione, per elaborare uno scenario legato al complotto, alle sette sataniche e alle abitudini nascoste di un’intera comunità come una presenza strisciante che sembra trovare conferma solo nell’attività onirica e nei racconti di Angela Gray.

L’ambizione di Amenabar è quindi quella di sviluppare un racconto persuasivo, banalmente televisivo e ancorato alle convenzioni più consunte del genere, con l’idea di sabotare questo stesso impianto stabilendo un dialogo con alcuni titoli recenti come Devil’s Knot oppure il pessimo Dark places, senza aggiungere niente di nuovo se non sottrarre a poco a poco tutti gli elementi di genere a favore di un’immagine fantasma, un’allucinazione consensuale che colpisce tutti quanti e che promana direttamente dai media, come scambio continuo tra suggestione indotta e il desiderio di farsi possedere dal pregiudizio.

Da questo punto di vista, pur nell’ottundente piattezza del film, Amenabar cerca di ricollegarsi al suo cinema migliore senza la forza provocatoria di film come Tesis, ma cercando di perseguire lo stesso disorientamento percettivo. Si ha la sensazione che Regression sia un film a metà tra un’opera senza forza e ispirazione e un progetto volutamente “brutto”, improvvisamente puntato su quell’immagine del cielo come estremo “spazio bianco”, esorcismo della memoria, vanificazione di qualsiasi verità ideologica.

Tutti i personaggi del film sembrano “non morti” spinti da un sentimento dolente, tanto da suggerire numerose piste, inclusa quella dell’influenza diretta sull’elaborazione cognitiva della realtà da parte della comunità religiosa o al contrario di quella scientifica, basta pensare a come il fratello di Angela, Roy Gray (Devon Bostick) si scagli contro lo specialista di ipnosi regressiva e il sacerdote della città, entrambi appellati come imbroglioni e parte di un accordo non scritto tra le varie componenti sociali, per approfittare del sangue delle famiglie. Non è semplicemente un ribaltamento tra innocenti e colpevoli, quanto la comprensione di una realtà alla deriva dove tutti sono vittime.

Improvvisamente il film si trasforma nel processo di espiazione di un trauma famigliare, uno stimolo interessante, ma realizzato senza troppa convinzione da Amenabar, che deve improvvisamente servirsi della parola e del personaggio di Ethan Hawke per raccontarci di una manipolazione cognitiva operata non solo dai media ma dallo spazio che l’individuo dedica all’esistenza dei media stessi, come origine del vero orrore.

Se si pensa ad altri titoli, molto più potenti da questo punto di vista, come per esempio Prisoners di Denis Villeneuve il film di Amenabar si esaurisce nella forma dimenticabile e destinata all’oblio delle occasioni mancate.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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