sabato, Novembre 2, 2024

Ritorno alla Vita di Wim Wenders: la recensione

Wim Wenders incontra per la prima volta Bjorn Olaf Johannessen al Sundance Film Festival durante un workshop sulla scrittura, nasce una certa sintonia tra i due e lo sceneggiatore norvegese tre anni dopo gli invia lo script di “Every thing will be fine“. Insieme al produttore Gian-Piero Ringel, Wenders decide per il 3D dopo l’esperimento già fatto per “Pina”, una scelta per molti considerata del tutto ininfluente, in realtà legata ad un lavoro sullo spazio che sembra la riduzione intimista delle geometrie volumetriche investite dal movimento aereo in alcune zone di Wuppertal dove sono stati girati gli esterni del film dedicato alla Bausch.

Basta osservare il modo in cui il regista tedesco elabora lo spazio casalingo di questo dramma famigliare, contrapponendo alla razionalità claustrofobica delle abitazioni, la trasparenza del vetro e la presenza chiara dei corpi, tutti aspetti sui quali ha lavorato insieme a Benoit Debie, pensando il rapporto tra volti e superfici nella dinamica degli schermi riflessi, suggestione che per certi versi proviene direttamente da “Paris Texas” per il modo in cui viene ripensata all’interno di uno spazio intimo la distanza di corpi vicinilontani che non riescono a toccarsi.

Se quindi la “presenza”, come ha detto Wenders stesso in una serie di interviste, gli ha consentito uno studio sui personaggi e sul ritratto, isolandoli e filmandoli in alcuni casi con uno schermo nero sullo sfondo, nella relazione frontale tra camera e attore, per sua stessa ammissione emozionale come quella del cinema delle origini; questo volume in rilievo, così visibile da sembrare tattile subisce al contrario un’alterazione fantasmatica che si traduce in una serie di dispersioni; nel pulviscolo, nel gioco astratto di luci e colori come in quella sequenza sorprendente che vede James Franco sfiorare il volto di Rachel MacAdams mentre lei risponde con gli schiaffi, nei riflessi sul vetro, nei colori e nello spazio del melodramma Sirkiano reinventati digitalmente tra visione e cecità, nella telefonata di James Franco e Charlotte Gainsbourg, entrambi lontani, ma ricombinati nello spazio tridimensionale con uno “split” senza demarcazioni.

Certo, a proposito di quest’ultima immagine ci è venuto in mente il digitale “primigenio” e catodico di Michelangelo Antonioni nel video di Fotoromanza per Gianna Nannini, già tridimensionale nel continuo sfondamento di superfici, specchi, sovrapposizione di spazi incongrui.

Era quindi necessario che Wenders ripartisse proprio da qui per rilanciare il suo cinema? Perché no, se nel gioco affettivo, ci spinge a riflettere sul nostro modo di essere in una relazione, senza includere l’invadenza delle nuove tecnologie, quasi fosse a filmare dentro il set di un film di Sirk, ma mostrandoci comunque uno straniante sonnambulismo, attualissimo ed inattuale allo stesso tempo, che come nei piani dell’immagine stereoscopica, si sdoppia tra presenza e assenza, cinema del passato e cinema del futuro.

È un dramma che mette in scena traumi continuamente sospesi quello di Wenders, dove il tempo si biforca; tutta la sequenza dell’incidente procede per dilatazione, sfruttando continuamente il fuori campo e spegnendo la tensione proprio quando si sta per innescare nuovamente; oppure nel momento del disastro al luna park, alluso, evocato, ritardato, come una minaccia che colloca il personaggio di James Franco nella posizione distante di uno spettatore silente, vicino agli angeli di Berlino oppure a Travis Henderson al di là del vetro.

Ma prima ancora della figura tutta novecentesca dello scrittore testimone del dolore altrui, divorato dal dubbio sulla relazione tra vita e creatività, “Every thing will be fine” è, come dicevamo, una deambulazione a vuoto, un movimento apparente del tempo in questi spazi così presenti nella loro dimensione volumetrica ma allo stesso tempo irreali, dove amarsi e toccarsi è difficile e doloroso.

Per rappresentare questa presenza anelata, il chiasmo della terza dimensione era semplicemente una possibilità.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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