Roma era stata liberata da due mesi quando Rossellini cominciò le riprese di Roma città aperta. L’urgenza era forte, troppo aveva visto la città in quegli anni, lasciata in balia di sé stessa e di una violenza selvaggia che non era arretrata di fronte a nulla. Cominciò dal titolo, città aperta, e così ricordò al mondo intero l’articolo 25 della Convenzione dell’Aja del 1907 che vietava di attaccare e bombardare con qualsiasi mezzo le città indifese. E invece Roma era stata violentata in tutti i modi da un potere che si era proclamato arbitro assoluto del mondo, aveva negato le leggi degli uomini e degli dei e piegato l’ordine naturale ai suoi biechi fini, poggiando sulla corriva alleanza di regimi corrotti e corruttori di coscienze.
Da lunedì 31 marzo in 70 sale, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna con l’Istituto Luce e la Cineteca Nazionale, torna il capolavoro di Rossellini.
Un evento speciale fra gli eventi speciali che hanno segnato quest’ultimo anno, con la proiezione mensile dei capolavori restaurati, opere miliari del cinema che non conoscono confini di spazio o di tempo. Con Roma città aperta, disse Otto Preminger, la storia del cinema conobbe un prima e un dopo, e fiumi d’inchiostro sono stati versati per scrutarne ogni particella, vivisezionarne ogni fotogramma per carpirne il segreto. Ci si è interrogati su cosa ci sia in un film, girato con pochissimi mezzi, a ridosso degli eventi, quasi con furia, da renderlo eterno, mai invecchiato nel tempo.
“In Roma città aperta il giovane regista Rossellini ha dimostrato che non solo si può fare del cinema in Italia, ma che questo cinema può avere un’originalità, un pathos, un carattere suo. E’ caratteristico, poi, che il primo film della resistenza europea sia nato nel paese che fu l’ultimo a ribellarsi all’ideologia nazista e ai suoi schiavi locali.”
Così scriveva al tempo Pietro Bianchi, ma pochi lo condivisero. Dovettero arrivare riconoscimenti internazionali perché ci si potesse fidare di Rossellini.
Il noviziato del regista fu difficile, al suo film si rimproverò quello stacco netto dalla concezione drammaturgica classica che, invece, era il suo punto di forza, e non tardò a permeare di sé tutta la sua opera successiva, ponendolo fra i padri nobili del cinema mondiale. Come Germania anno zero, girato due anni dopo con mezzi di fortuna, fra le macerie di una Berlino spettrale dove si consumava il tramonto definitivo della civiltà europea in quel salto finale nel vuoto del piccolo Edmund, anche Roma città aperta nasce da un’urgenza che è tensione morale, testimonianza, abbandono di tutto quanto non sia dettato dal bisogno di leggere e tradurre in immagini una tragedia incommensurabile. Ma per parlare di qualcosa mai visto prima, di un mondo, cioè, uscito dai cardini e dei suoi Dei messi in fuga dai templi, serviva un linguaggio nuovo, mezzo epifanico di realtà mai esperita prima, occorrevano intonazioni diverse e stridenti, come le “rime aspre e chiocce” inventate da Dante per il suo Inferno.
E fu così che nacque il cinema moderno, in cui il termine “realismo” non significò necessariamente trasferimento in immagini di fatti, azioni e attori presi dalla strada, ma geniale, vitale e prismatica proposta di una nuova grammatica del cinema. Magnani e Fabrizi, già star all’epoca, sono punti cardine del film, al centro e alla fine. Ma cosa c’è di più vero, di più autenticamente reale, non finzione cinematografica eppure ardita metafora cinematografica, dell’ “urlo nero” di Pina, che esce correndo da un portone di quella Roma umbertina di case alte e severe e corre gridando “Francesco” verso il camion dei nazisti che portano via il suo uomo e abbattono lei con una sventagliata di mitra? Quante madri, mogli e figlie avranno corso allo stesso modo per le strade di Roma dopo l’8 settembre del ’43? E quanto materiale documentario è conservato negli archivi dell’Istituto Luce a futura memoria? Eppure è quella la corsa, è quello l’urlo che si scolpisce nella memoria come poche cose appartenenti all’arte di tutti i tempi. E quanti alunni desolati avranno assistito alla fucilazione dei loro maestri come quelli che, dietro la rete, guardano impotenti la morte del loro don Pietro ?Era don Morosini, nella realtà, e la notizia del prete fucilato dai nazisti circolava in quei giorni a Roma.
Tutto questo bisognava dirlo, e subito, perché il tempo e il bisogno di rimozione non stendessero veli ipocriti o pietosi.
La città aperta di Rossellini è una città chiusa in un dolore senza parole, dove il regista, invisibile, gira con la sua macchina e guarda, dialoga con i suoi personaggi, è l’autore di cui hanno bisogno perché la loro storia diventi quella di tutti. E’ l’uomo con la macchina da presa che vola sui tetti, scende nelle strade, crea il tempo e scolpisce le storie incastonandovele dentro, fa nascere dal nulla l’empatia per uomini e donne scavati fin nel profondo con rapidi tocchi. Tanti piccoli eroi quotidiani sfilano in una messa in scena che non ha nulla di spettacolare, il racconto procede per ellissi e silenzi, squarci di vita vissuta nella normalità e guerra, nonostante tutto. Manfredi (Marcello Pagliero) militante nella Resistenza e ricercato dalla Gestapo, Pina (Anna Magnani) che aspetta il giorno dopo per sposare Francesco (Francesco Grandjacquet), i ragazzetti del caseggiato che compiono il loro piccolo attentato e prendono bei scappellotti, l’attricetta, povera disgraziata in mano a droga e uomini depravati (Maria Michi), Don Pietro (Aldo Fabrizi) figura stupenda di prete militante che, con la tonaca svolazzante e sbuffando per la mole, fa da tramite fra i clandestini, E, infine, gli agghiaccianti interni di Via Tasso, la famigerata sede delle torture naziste da cui erano usciti i diktat più aberranti rivolti alla città. I ragazzi in chiusura, dopo la fucilazione di Don Pietro, hanno fatto storcere il naso a molti, eccesso di patetismo, si è detto. Ma forse la vita va davvero così, a volte, e, nonostante tutto, scorre.
Questo sembra dirci quel cielo su Roma che, nonostante il b/n, sembra azzurro.
Sullo sfondo, lo sky line della città, la stessa, quindici anni dopo, dei borgatari di Pasolini.