Il film di debutto dell’ungherese László Nemes intitolato Saul Fia (Son of Saul) è stato presentato a Cannes in concorso. Durante la conferenza stampa ufficiale erano presenti gli attori Geza Rohrig, Levente Molnar, Urs Rechin e Mendy Cahan, insieme ad alcuni del cast tecnico, incluso il direttore della fotografia Matyas Erdely, il produttore Gabor Rajna
Saul Fia, nel rappresentare la Shoah, cerca di “mostrare quello che non era possibile – come ha affermato il direttore della fotografia Matyas Erdely – il talento di Lazlo ha permesso una scelta così estrema, e allo stesso tempo di mantenere un approccio che ci consentisse tutto quello che non era fondamentale per raccontare quello che volevamo“
Il film si concentra su un Sonderkommando di Auschwitz, uno di quegli ebrei forzati a dare un aiuto per la sistemazione dei cadaveri usciti dalle camere a gas. I Sonderkommando ricevevano un trattamento migliore rispetto agli altri ebrei, con cibo migliore, migliori condizioni di vita rispetto ad altri compagni, ma venivano comunque uccisi pochi mesi dopo, affinché si evitasse che raccontassero dettagli segreti di cui erano a conoscenza.
Nemes, che è già stato assistente di un autore importante come Bela Tarr, ha sviluppato il suo film sulla figura di Saul, interpretato dall’attore Geza Rohrig, e sul suo tentativo di offrire una miglior sepoltura ad un ragazzo ucciso. Pur svolgendosi sullo sfondo, tutti gli orrori del campo di concentramento non vengono nascosti dal film di Nemes: “abbiamo pensato che lavorare per sottrazione fosse la cosa migliore – ha dichiarato il regista in conferenza stampa – lasciando in parte che l’immaginazione colmasse i vuoti. Era molto importante per me fare un film su questa esperienza durissima e infernale, da un punto di vista diverso, cercando di allineare tutto alla dimensione di un solo essere umano“
Rohrig, che interpreta Saul, ha dichiarato quando fosse essenziale smettere di sentirsi un essere umano, come unica via per rimanere sani all’interno di un contesto come quello, staccarsi quindi dalle emozioni, una sfida che per il personaggio si identifica nell’azione entro un’area molto ristretta, rappresentata in modo assolutamente minimale.
In questo senso, il lavoro di László Nemes e della co-sceneggiatrige Clara Royer, si è concentrato sia sulle testimonianze dei sopravvissuti che sugli scritti rinvenuti sotto terra e vergati dalle persone morte. Non è una visione esaustiva della vita in un campo di concentramento, quanto una visione soggettiva, agganciata in modo mobile al personaggio principale e realizzata con l’utilizzo di un lavoro sulla camera a mano, compiuto attraverso una riduzione delle capacità focali.
Questa vicinanza aptica della macchina da presa sui corpi, i volti, i movimenti dei personaggi, contribuisce alla realizzazione di un film con una forte pressione del fuori campo sui confini dell’immagine stessa, costruendo allo stesso tempo un’immagine potentemente ansiogena.
“È un film ambizioso realizzato con molta economia – ha dichiarato il regista – e che porta l’occhio dello spettatore direttamente nel cuore di un campo di concentramento. Il nostro scopo era quello di affrontare una via diversa rispetto a quella legata ai drammi storici tradizionali, con la loro visione gigantesca e una narrazione sviluppata secondo le regole del racconto multisoggettivo. Questo film non racconta la storia della Shoah, ma è la storia semplice di un uomo che ci si trova dentro, osservata da un punto di vista limitato, nello spazio e anche nel tempo. Due giorni nella vita di un uomo forzato a perdere la sua stessa umanità e che trova la possibilità di un riscatto morale attraverso il salvataggio di un corpo morto. Noi seguiamo il personaggio principale, attraverso il film, venendo a conoscenza solo di quello che immediatamente scorge, così da creare uno spazio filmico organico di proporzioni ridotte, molto vicino alla percezione umana e personale. Focali ridotte, la costante presenza di elementi fuori campo nella narrazione, la visuale limitata e le limitate informazioni fattuali a cui il personaggio e lo stesso spettatore hanno accesso, sono gli elementi fondanti delle scelte narrative che abbiamo fatto. Rappresentando così un mondo accurato e più fedele possibile, relativamente ad eventi e luoghi, ma mostrandone l’orrore in una forma frammentata, lasciando molto all’immaginazione, un orrore che può essere ricombinato solo nella mente. Il multilinguismo catturato in questa babele di nazioni colte nel mezzo di un’esperienza disumana, fa parte di questa visione. In un racconto così cupo, credo che ci sia anche un alto grado di speranza, perché nella totale perdita di qualsiasi limite morale, valore e religione, un uomo comincia ad ascoltare solo una voce flebile che lo conduce alla ricerca di una moralità e uno spirito di sopravvivenza interiore“
L’idea del film viene a Nemes a Bastia, mentre stava lavorando sul set del film di Bela Tarr, A Man From London. Durante l’interruzione delle riprese, durata una settimana, il giovane regista ungherese trova un libro che raccoglieva le testimonianze di alcuni sopravvissuti, pubblicato dalla Shoah Memorial e intitolato “Des Voix sous la cendre“, ovvero un libro di testi scritti da Sonderkommando che avevano seppellito e nascosto le loro testimonianze durante la loro permanenza nei campi di concentramento e prima del 1944. Nella descrizione di quelle giornate, il libro documenta il modo in cui il lavoro era strutturato, le regole che organizzavano lo stesso campo e le modalità di sterminio degli Ebrei.
Per Nemes stesso, considerata la perdita di parte della sua famiglia ad Auschwitz, raccontare questo è stato come connettersi con un passato a lungo rimasto in una zona oscura.
“Ho sempre ritenuto che i film sui campi di concentramento – ha dichiarato il regista – fossero frustranti, per il modo in cui costruiscono storie di sopravvivenza ed eroismo, in un modo che secondo me ha contribuito a costruire una concezione mitica del passato. Le azioni dei Sonderkommando erano invece concrete e tangibili, perchè descrivevano, anche attraverso gli scritti ritrovati, il funzionamento usuale di una fabbrica della morte, con le sue regole, i ritmi di lavoro, il rischio e la produttività“
Le fonti a cui Nemes e Clara Royer hanno attinto, oltre a quelle di Shlomo Venezia e Filip Müller, includono quelle di Miklós Nyiszli, un dottore ungherese a cui fu affidato un crematorio, oltre ovviamente al lavoro di Claude Lanzmann per Shoah, in particolare tutta la parte relativa ai Sonderkommando e alle testimonianze di Abraham Bomba.
Insieme a Mátyás Erdély, il direttore della fotografia, e allo scenografo László Rajk, Nemes ha scelto alcune regole estetiche vicine in un certo senso a quelle del “Dogma”, utilizzando quindi le stampe successive del girato, tutto rigorosamente in pellicola 35mm, l’unico modo secondo Nemes per mantenere una certa instabilità delle immagini, e per filmare il “Mondo” in modo organico, utilizzando focali ridotte a 40mm, senza cambiare obiettivo.
Tamás Zányi, che ha curato tutto il sound design del film, ha lavorato su un suono semplice, rozzo ma allo stesso tempo multidimensionale, cercando di rendere al meglio l’atmosfera acustica di queste fabbriche di morte e allo stesso tempo sovrapponendo la molteplicità di lingue, senza puntare ad una ripulitura del suono.
Di importanza fondamentale il ruolo di Géza Röhrig, che non è propriamente un attore, ma è uno scrittore e poeta ungherese stanziato a New York. Incontrato da Nemes diversi anni fa, è stato scelto dal giovane regista per la sua mobilità, interiore e fisica, ma anche perché non è possibile assegnargli un’età, assumendo spesso i tratti di una persona sia giovane che vecchia, tanto bella quanto orribile, ordinaria e profonda. Proprio per questo, nel clangore industriale che produce morte, una voce interiore, alla base di tutte le religioni, si farà strada nella sua coscienza, quella di restituire rispetto ad un morto, con la giusta sepoltura del suo corpo.