Uno Sguardo altrove è quello che doverosamente spetta alle donne turche, registe di un cinema che se per gli uomini è una sfida costante al potere, per loro è anche di più, relegate in una condizione di sudditanza difficile da negare ancora oggi, nonostante quote rosa e quant’altro. Sguardi Altrove, il festival più importante dedicato al cinema delle donne, per la sua XXIII edizione in partenza oggi in alcune location milanesi, propone un focus sull’ultima cinematografia turca
Il programma prevede “One million steps” di Eva Stotz, in programma oggi diciasette marzo alle 8 p.m. Presso Spazio Oberdan, “My letter to pippa” di Bingol Elmas in programma sabato diciannove marzo alla Sala Gregorianum di via Settala 27 alle ore 17, sempre alla Sala Gregorianum, domenica venti marzo alle 21.15 Araf di Yesin Ustaglou, si torna invece allo Spazio Oberdan martedi 22 alle ore 15 per “Playing house” di Bingol Elmas e per “Bilge and her apprentice” di Belmin Soylemez. Sempre Spazio Oberdan per la giornata di Giovedi 25 marzo quando saranno presentati a partire dalle ore 15 “Present tense “di Belmin Soylemez e Dust Cloth di Ahu Ozturk.
Una storia semplice: Bilge Olgaç
“Ero una giovane donna. Inizialmente, si chiedevano se e che cosa potesse raggiungere una donna. Si leggeva il dubbio nei loro sguardi. Così ho reagito simulando aggressività, alzando la voce. In seguito mi sono liberata di questi atteggiamenti, poiché la gente ha iniziato a credere in me e ad avere fiducia. Dal 1962 ho girato 33 film, per alcuni dei quali ho scritto anche la sceneggiatura.”
Sono parole di Bilge Olgaç, raro esempio di donna turca regista, la presenza più produttiva nella storia del cinema di quel Paese, che ha lottato con tenacia per la sua causa ed ha vinto.
Scomparsa nel 1994 nell’incendio della casa in cui viveva, nel 1996 venne istituito il Premio Speciale Bilge Olgaç nel Film Festival Altın Koza, e dal 2003 il Premio Bilge Olgaç premia le attrici nel FilmFestival internazionale della donna di Ankara.
Di lei ci parla il corto Bilge and her apprentice, 2015, di Belmin Söylemez, sua assistente per due anni, agli inizi della carriera, oggi regista e produttrice di cortometraggi e documentari proiettati in festival internazionali come Toronto, Göteborg, Sarajevo e vincitrice di numerosi premi a livello nazionale e internazionale. Il suo primo lungometraggio fiction, Present Tense, presentato a Torino, TFF 2012, è fra i titoli di Sguardi altrove 2016.
L’incontro fra le due donne fu un approccio semplice: Belmin, 21 anni, del tutto inesperta, e Bilge, regista affermata ma priva di atteggiamenti divistici: “Vorrei lavorare con te ma non ho esperienza”.
“Io sono sola, lavora da domani se vuoi”, rispose Bilge e le chiese l’età. Poi le disse di scrivere storie da mandare ai giornali, fino al giorno in cui un articolo divenne un film.
Il mondo del cinema in Turchia fra gli anni ‘60 e gli ‘80 sale così alla ribalta nella storia di questa regista con cui recitò anche Yilmaz Güney in Üçünüzüde Mıhlarım. (I’ll shoot all three of you).
Un nutrito repertorio fotografico e spezzoni da film in cui vediamo recitare un Guney giovanissimo, manifesti di una filmografia sempre attenta a non cedere alle lusinghe dell’industria del cinema dominata dagli uomini, un’alternanza fra bianco e nero e colore a segnare il flusso del tempo: così Belmin Söylemez ricostruisce il mondo umano e artistico di Bilge Olgaç, il metodo tutto artigianale del suo lavoro, il montaggio in prima persona della cosiddetta “working copy”, le scene che sistemava in ordine sullo scaffale e il meticoloso lavoro di editing.
“Il film comincia con l’editing” amava dire e, instancabile, arrivava alla Fono film sempre prima degli altri, ogni giorno. C’è, nelle parole che accompagnano le immagini, tutto l’affetto unito all’ammirazione dell’allieva per la maestra da cui ha appreso la passione per il suo lavoro. “ Tutti la rispettavano, i cameramen le dicevano: vorremmo che ogni regista sapesse ciò che vuole, come te”.
Film e documentari sono stati, per Bilge Olgaç, un’occasione costante per far luce sui problemi delle donne in Turchia, vissuti anche in prima persona per le difficili condizioni di ripresa, al punto che quando, nel 1984, vinse un premio al Women’s Film Festival in Francia per Chambre de mariage, non le fu rilasciato il passaporto per motivi politici. Una sciarpa rossa con dedica del direttore del Festival le fu spedita in Turchia. Hunger, Lynch, La chambre de mariage, sono alcuni dei titoli in cui la condizione femminile è tema centrale, i villaggi dell’Anatolia e i preparativi per il matrimonio, con tutte le donne riunite attorno alla sposa, sono scene ricorrenti, ma Belmin Söylemez si sofferma in particolare su Una ragazza di nome Fatma, film dell’ ’88, che sembra girato oggi, tanto è vicino alle spose bambine di Playing House, 2012, di Bingol Elmas.
Protagonista del film è Fatma, sposa bambina che viene sottoposta al test di verginità per ordine del tribunale e, racconta Söylemez, la scena fu girata in un autentico laboratorio forense, la cosiddetta “camera di procedura”. “Ho trattenuto il fiato davanti a questa scena, sembrava reale, e l’attrice non riusciva a nascondere le lacrime neanche dopo aver girato”. Söylemez ricorda ancora i lunghi viaggi con la troupe alla ricerca di buone locations per i film. Immagini dell’altopiano anatolico, montagne bianche di neve e strade solitarie lungo fiumi attraversati da antichi ponti di pietra fanno da sfondo agli incontri con gente del luogo nei piccoli villaggi senza tempo.
Un ricordo a parte merita quello con Ahmet Kaya: “ Lungo queste strade abbiamo conosciuto Ahmet Kaya, cantautore rivoluzionario di origini curde, voce di tanti detenuti politici. Il suo album in vetta alle classifiche fu ritirato per decisione del giudice. Bilge amava la sua musica e cantava spesso le sue canzoni ”. Ameth se n’è andato nel 2000. Esule a Parigi, come Guney, era amato ed apprezzato dal popolo turco, nonostante il silenzio dei media e l’incomprensione del mondo della politica. Sepolto al Père Lachaise, lasciò queste parole: “ Un giorno qualunque qualcuno scriverà la storia di un uomo curdo che avrebbe voluto cantare in curdo senza voler dividere nessun Paese. Chi leggerà questo racconto capirà che non c’è bisogno di aver paura delle canzoni e di chi le canta ”.
“ Tre donne intorno al cor mi son venute …”: essere donna in Turchia oggi.
Protagonista di anni difficili da vivere, Bilge Olgaç è stata antesignana di quest’ultima generazione di giovani registe che continuano a non arrendersi né si adagiano in una comoda e redditizia acquiescenza che le farebbe protagoniste di red carpet internazionali. E’ il caso di due giovani registe turche, Ahu Öztürk e Bingol Elmas, e di Eva Stotz, documentarista tedesca, che hanno scelto una strada non facile, quella di un cinema attento al sociale, nella fattispecie alla condizione femminile, senza però lasciarsene soggiogare prendendo derive ideologiche facili da abbracciare, visti i temi trattati.
Il panno per la polvere
Senza ricorrere agli stilemi della retorica persuasiva, piuttosto col pudore e il rispetto di chi osserva lo scorrere di vite che solo in apparenza sembrano insignificanti, Ahu Öztürk, giovane cineasta alle sue prime prove, parte dallo straccio per la polvere, feticcio indiscusso di ogni donna che si chiami tale.
Dust Cloth, 2015: due donne delle pulizie di origine curda e le loro giornate scandite da famiglia, lavoro, figli, padroncine benestanti e pedanti e mariti fantasma sono il racconto, e il finale drammatico arriva in sordina, un sottotono che ben si addice alle loro vite marginali. Universo concentrazionario da cui lo sguardo ha poco da spaziare, i rapporti parentali e i legami amicali, l’amor materno e l’amor filiale, i rapporti di classe e il riscatto esistenziale affidato ad un gesto d’amore, tutto si scioglie nello scorrere implacabile di giorni mediocri, e la tristezza di un abbandono, la rabbia di un rifiuto, la generosità di un gesto si avvertono in filigrana, in una messa in scena pudica e silenziosa, che è naufragio ma anche possibilità di riemergere, forse, in futuro.
Le spose bambine
” Era il matrimonio? Erano persone in fila per torturarmi o era qualcosa d’altro? Io ancora non lo so.”
Playing House, 2012, di Bingol Elmas mette in scena quattro donne che raccontano la loro drammatica vicenda di spose bambine e le conseguenze che ancora oggi scontano sulla propria pelle.
Un’ora in una realtà che si fa fatica a credere vera trascorre assistendo ad un’usanza ancora diffusa in tutto il Paese, a dimostrazione di come questo tipo di violenza non sia appannaggio esclusivo di paesi africani e del quarto mondo in genere. Il 50 per cento dei matrimoni in Turchia sono ancora matrimoni precoci, classificati dalle leggi internazionali come veri e propri abusi sui bambini, violazione dei diritti umani e attentato alla salute pubblica. Il montaggio alternato unisce fiction per ricostruire il passato e cinema/verità per registrare il presente, e quattro testimonianze, un frammento dopo l’altro, mettono in scena qualcosa che si potrebbe a ragione definire una descensio ad inferos, un percorso nell’orrore. C’è la ragazza di diciannove anni, sposata a tredici e venduta dal marito perché ha osato ribellarsi.
C’è l’altra che racconta del marito che la sera delle nozze arrivò in camera e la schiaffeggiò, senza motivo, solo per mettere in chiaro chi comandava e quanto bisognava obbedire. E poi la vedova, rimasta sola e per questo considerata donna di facili costumi, offesa pesantemente dovunque andasse. Ben dotata di intelligente ironia, la sua solitudine è diventata segno di indipendenza. Non più pedina di un sistema selvaggio regolato dagli uomini esclama: “ E non sanno quanto odiamo gli uomini. Possono stare tranquilli ”.
Ultima, la donna che ha sposato un vedovo con più del doppio dei suoi anni e che alla fine, nella smorzata inesorabilità di un destino infelice, si è ritagliata una dimensione di quieta rassegnazione che, forse, è la condanna peggiore. Una tenerezza ruvida e struggente avvolge queste vite che hanno imparato ben presto, dal padre, il primo comandamento: “ Zitta, non devi parlare, sei una femmina ”.
L’istruzione per loro è stata un’utopia, i giochi con i coetanei maschi pura trasgressione, le botte una medicina quotidiana. Emanciparsi a qualcuna è riuscito, ma a prezzo di sforzi incredibili. Più di metà delle spose bambine di quel Paese sono destinate a restare tali, fino alla vecchiaia infelice, ignare dei loro diritti e prive di una dignità che nessuno ha mai riconosciuto alla loro persona.
Una sposa per la libertà: Pippa Bacca
Ancora Bingol Elmas per un film che si svolge lungo un cammino segnato da un ricordo importante, quello di Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca. Chi non ricorda quel tragico 31 marzo 2008, quando le agenzie di tutto il mondo batterono questo comunicato: “La 33enne milanese è stata violentata e uccisa da uno degli uomini conosciuti nel corso del suo viaggio … “.
L’avevamo vista partire da Milano con un’amica, entrambe vestite da sposa. Volevano arrivare a Gerusalemme in un cammino per la pace. Molti dissero che Pippa era una ragazza “idealista e sventata”. Forse bisogna essere realiste e prudenti per non rischiare la vita? Chissà, forse non serve, e comunque Bingol Elmas ha deciso, nel 2010, di vestirsi anche lei da sposa, con un abito nero in segno di lutto.
” Ho riflettuto molto quando ho saputo quel che era accaduto a Pippa. Non la conoscevo personalmente, ma mi è sembrato che la sua fine fosse particolarmente oltraggiosa per una donna, per una persona che sceglie di fare autostop in un Paese straniero con il vestito da sposa. Quasi una cosa fatale. E allora ho deciso di raccogliere il suo messaggio: “la paura domina, e invece noi abbiamo bisogno di pace”. L’idea è nata così “. Bingol è partita da Gebze, il luogo in cui fu trovato il corpo e dove viveva Murat Karatash, 38 anni, l’uomo (o più uomini, secondo le rivelazioni emerse dal processo) che la violentò e strangolò e nascose il corpo dietro un cespuglio. E’ arrivata alla frontiera siriana percorrendo 1400 km ed è salita su tanti camions, come aveva fatto Pippa, ha avuto passaggi da tanti uomini e ascoltato tanti discorsi.
” Lungo la strada alcuni pensavano che fossi una passeggiatrice, o la polizia, oppure una spia. Altri, invece, mi credevano semplicemente pazza. Per fortuna è andato tutto bene. Mostrerò tutto nel film, comunque “. Nel film la vediamo camminare sorridente e serena mentre attraversa paesi e strade solitarie, si ferma a parlare con le donne e i bambini che giocano in strada, ascolta i discorsi di uomini di ogni età con la loro piccola filosofia di vita. C’è il bigamo che sta per diventare poligamo, la prima moglie non era fertile e allora passò alla seconda, ora troppo vecchia, e allora via con la terza.
C’è il vegliardo di 95 anni che ancora sparge perle di saggezza: “ Dio onnipotente consiglia di sposare una donna per la sua bellezza o la sua fede o la sua ricchezza.Se non hai cura del tuo onore l’uomo non ti vuole ”, e c’è il coretto ridanciano da osteria: “ Se la donna non provoca non succede. Abbiamo un detto: lei agita la coda e l’uomo risponde ”. Sul vestito nero di Bingol le donne, poche, incontrate, attaccano simboli di libertà. Uno è un ricamo di nuvole.
“Nero è il colore del lutto, l’ho fatto per ricordare Pippa – dice Bingol – Ma anche per contrasto al bianco dell’abito da matrimonio: si pensa che la donna che va in sposa sia pronta a tutto per l’uomo, e io volevo ribellarmi a questo, volevo sottolineare gli aspetti negativi in proposito per le donne”.
Una piccola troupe l’ha seguita nel cammino e ne è nato un film, My letter to Pippa.
“ Cara Pippa, quando abbiamo saputo che eri scomparsa, abbiamo indovinato cosa era accaduto poiché sappiamo cosa si pensa della donna qui. Attraverso la tua dolorosa perdita ci troviamo di fronte ancora una volta la nostra realtà. Come una donna in un paese circondato da guerra e come regista di documentari voglio credere che ci sia la pace e la salvezza. Questo è il motivo per cui voglio partire dal luogo in cui sei stata fermata. Ho voluto raccontare la solidarietà femminile insieme al fatto che non sei sola. Cara Pippa, mentre vivevi i tuoi ultimi minuti di orrore, molte donne soffrivano per tutte le forme di violenza solo a causa dell’essere donne, e io so che questo non appartiene solo a questo posto. Ma la mia speranza non ha mai vacillato. Ho creduto nella bontà della gente.
Io voglio il coraggio di Antigone per accompagnarti in questo viaggio ”.
Arrivata all’ultima tappa Bingol ha affidato all’ultimo camionista diretto a Gerusalemme uno scialle da legare allo specchietto esterno: “ Cara Pippa il mio viaggio finisce qui, ma il tuo viaggio della pace andrà avanti. Spero che questo scialle raggiunga il posto che volevi vedere. C’è molto da fare per la pace, possa il tuo viaggio essere un modo per aiutarla.”
One Million Steps
Disincantato e vitale al tempo stesso, il breve documentario di Eva Stotz è un piccolo gioiello di compromesso cinematografico tra linguaggi.
Una tap dancer, Marije Nie, un artista dell’animazione, Arzu Saglam, e una città, Istanbul, collaborano in un corto di venti minuti a raccontare una pagina di storia contemporanea, una di quelle che hanno incendiato gli schermi televisivi di tutto il mondo tra il 28 ed il 30 maggio 2013.
Siamo a Gezi Park, una ballerina di tip tap arriva tra i manifestanti pacifici di piazza Taksim.
Cosa vogliono quei giovani colorati, allegri, che guardano divertiti la ballerina che, tip tap, tip tap, dà il giusto ritmo alla vita?
Sappiamo che il sit-in pacifico di una cinquantina di persone che manifestavano contro la costruzione di un centro commerciale al posto del Parco Gezi subì una carica di polizia che ebbe come unico effetto quello di allargare la protesta. La violenza della repressione scatenata dal governo di Erdogan, con le squadre antisommossa lanciate contro i manifestati con mezzi ai limiti della legalità, lasciò sul terreno 9 morti e oltre 8.000 feriti.
Il film dà il ritmo all’azione, il disegno si anima, diventa plastico, la figurina danzante si tuffa nella crepa del pavimento e oltre il buco c’è la realtà.
Ora è una ballerina in carne e ossa e ogni passo sviluppa un numero, tanti piccoli numeri, come bolle di sapone, escono dal pavimento ad ogni percussione, fino ad un milione.
Passi danzanti per raccontare la vita:
“ Il ritmo come linguaggio universale ci ha ispirato per incontrare una città e i suoi abitanti, attraverso i ritmi dei passi che prendiamo nella nostra vita. Abbiamo scelto Istanbul come nostra destinazione, una città di contrasti estremi, che esiste da più di 2000 anni ed è soggetta all’espansione di un’economia neoliberista. Quali pressioni genera tutto questo? Cosa diventa visibile quando guardiamo i passi quotidiani e i movimenti degli abitanti? “
La protesta silenziosa si diffuse in tutto il mondo, divenendo il simbolo della resistenza contro il neo-capitalismo rampante e l’autoritarismo di ogni governo nazionale.
“Attraverso i suoni che cambiano e i movimenti nella città, abbiamo sentito una resistenza pacifica e creativa contro un sistema che si è allontanato dalle persone e dalle loro esigenze. Nel film vediamo attraverso gli occhi della ballerina come le persone vogliano recuperare il loro spazio di vita e lottino per un pezzo di libertà. La danza è un gioco politico in un primo momento, ma poi scopre la sua affinità con la gente che protesta e diventa una potente espressione di solidarietà “.
Dopo la brutale repressione di Gezi Park, nel giugno 2013 migliaia di dimostranti si fermarono sul loro posto e stettero in silenzio, in piedi, per giorni. Un milione di passi era stato fatto, ogni passo era una vita che ora si fermava, in attesa.