La città senza notte di Alessandra Pescetta è un film che si muove tra arte pittorica e videoarte. Le gigantografie di Mariko e gli intermezzi allegorici in rallenty si incasellano nella trama visiva come rifinente collante narrativo, mentre le intime vicende si sviluppano in un contesto quasi metafisico, come la materializzazione degli aridi spazi della psiche.
La casa diventa un non-luogo agli occhi di una apolide come Mariko, costretta ad abbandonare il suo paese distrutto dalla potenza della natura. Un luogo domestico che si fa spazio di transizione, effimero e alienante locus horridus, rifugio solo apparentemente securitario, dischiuso in un openspace dall’arredamento minimale e aperto all’esterno in lunghe vetrate che lasciano intravedere un paesaggio emblematico, disarmonico e ossimorico, in cui si contrappongono una natura incontaminata, i comignoli di fabbriche misteriose e gli austeri e grigi edifici di una stazione, mentre alle spalle dell’abitazione si estende un mare mosso che scroscia su un molo dalla battigia ghiaiosa. Il film è, non a caso, un susseguirsi di spazi instabili e precari: così come è la presa di coscienza della caducità dell’uomo sulla Terra.
In sottofondo perenne la voce meccanica e incorporea degli annunci ferroviari; la colazione notturna in una stazione di servizio (dove sembra consumarsi il primo momento di vero relax); o la risoluzione all’insonnia di Mariko grazie all’incessante vagare in automobile per le strade deserte: tutto concorre a definire un itinerario di non-luoghi salvifici, di contro agli spazi definiti della casa dove invece incombe la minaccia della natura implacabile da un lato e delle fragili e minacciose strutture umane dall’altro.
È quello che Mariko stessa definisce “accumulo biologico”: il piccolo pesce contaminato dalle radiazioni mangiato da un pesce più grande mangiato a sua volta da un pesce ancor più grande, e così via, snodandosi in una catena infinita di contagio. È il processo irreversibile avviato dalla corruzione della natura da parte dell’uomo. E in questo senso l’elemento dell’acqua è centrale. Una sostanza che ritorna, vendicativa, a porre distruzione per ridefinire gli equilibri naturali.
Le immagini forti descrivono quella devastazione emotiva vissuta dai due personaggi, mentre di sottofondo al dramma inconscio e incomunicabile risuonano le parole di Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais: un chiaro rimando ad un evento esiziale che continua a ripetersi e a cui sembra impossibile sfuggire.
In una visione distorta e al contempo lucida, l’ordinario si trasforma in straordinario: il mercato del pesce diventa un circo degli orrori e la dieta a base di pesce è intollerante. Un rifiuto al nutrimento scaturita da un nesso subcosciente che rivela una coincidenza tra il popolo giapponese e i pesci. Un orrore che Mariko rivive nel mattatoio ittico. I pesci arenati sulla terra, scaraventati dalle acque dello tsunami, diventano quel popolo giapponese risucchiati dalle stesse acque. Privati entrambi del loro habitat, scollati dalle loro certezze vitali.
Finché sembrano palesarsi due sole soluzioni per fuggire da questi demoni: l’arte e la pace del sonno. Dimensioni spesso coincidenti. Come infatti in Hiroshima Mon Amour vi è descritta la bellezza delle viscere dilaniate dalla bomba, così in La città senza notte l’unica ancora di salvezza diventa la raffigurazione simbolica della strage. Arte come morte e rinascita: liquido amniotico rigenerante, come l’acqua distruttrice e creatrice. L’acqua dà e l’acqua distrugge così come solo l’arte sa plasmare vita dalla morte.