“Questo film è il risultato di ventiquattro ore passate alla frontiera di Ventimiglia, dove ho liberamente registrato immagini e suoni di quello che stava accadendo davanti ai miei occhi. Rivedendo e riascoltando il materiale, una frase in particolare mi sembrava potesse diventare il filo attorno al quale arrotolare la matassa: “Take pictures, com’on take pictures. Show all this to the world”. La pronuncia un ragazzo africano che assegna alla videocamera il ruolo di testimone. Migranti, giornalisti, fotografi, poliziotti, politici, cittadini, attivisti, turisti, volontari: tutti sugli scogli, tutti sul confine, ognuno alla ricerca del suo ruolo dentro lo “show” (Andrea Deaglio)
Esattamente dieci anni fa, 2006, dopo aver girato Lettere dal Sahara, Vittorio De Seta diceva a chi lo intervistava: ”Si avvera il sogno di Zavattini, avere una super8 in tasca e fare un film così, con pochissimi soldi”.
Con pochissimi soldi e quasi in presa diretta De Seta aveva parlato allora del sogno di Assane, povero immigrato laureato in Storia e Filosofia, clandestino senegalese buttato in mare da scafisti, approdato a nuoto e con motovedette italiane a Pantelleria, scappato alle guardie ad Agrigento, vissuto per qualche tempo a Napoli e Firenze con lavoretti vari, infine massacrato di botte da giovani italiani con scooter e orecchino a Torino e buttato nel Po, da cui si salvò non si sa come.
Fatta questa esperienza, Assane era tornato in Africa a raccontare la sua storia al vecchio prof che diceva ai suoi alunni: “Forse dovrete partire anche voi e l’esperienza raccontata da Assane vi ha detto che non sarà facile. Se tornerete, però, potrete lavorare per il vostro popolo che ne ha bisogno”.
De Seta, con la grinta di un uomo che a più di 80 anni non si fermava, guardava con curiosità, sperimentava il nuovo e lo metteva al servizio della memoria e dell’impegno fra gli uomini, aveva girato in digitale una storia vera che oggi sembra preistoria, e ci costringe a fare confronti e riflessioni.
Quello che vediamo nel lavoro di Deaglio è la deriva drammatica, e a quanto pare inarrestabile, che il fenomeno “migranti” sta registrando oggi. La storia scappa in avanti a gran velocità e costringe gli uomini a rincorrerla inventando strategie nuove di comunicazione.
Restando nel campo delle classificazioni si pone infatti una questione di genere.
Nessun documentario è neutrale, dunque Show all this to the world non è un documentario perché è indubbiamente neutrale. Bisogna allora considerarlo presa diretta su un evento, qualcosa che nella carta stampata andrebbe in cronaca? Neppure, la neutralità dello sguardo non annulla una presenza vigile e determinante nelle scelte di ripresa, dietro la macchina.
Forse non esiste ancora una definizione, bisognerà trovarla per consegnare al cinema un materiale così mobile e dinamico da imporre linguaggi nuovi.
Né sonoro, solo rumori ambientali, né voce narrante, solo voci della gente che occupa gli spazi del lungomare, dei giardinetti adiacenti e della scogliera.
Deaglio apre la giornata di riprese con una sequenza chiave, sugli scogli di Ventimiglia, all’alba. Chiuderà i 55 minuti del film con la notte che scende sullo stesso posto e lo sciacquio delle onde, sempre uguali e sempre diverse.
Fra questi due poli trascorre una giornata-tipo, come andarono da giugno a settembre 2015 tutte le giornate a Ventimiglia, finis terrae, oltre non si va, aveva deciso la Francia.
E allora, ecco la polizia che sgombera
gli spazi davanti al muretto (oltre, tra muretto e mare, sopra gli scogli, c’è una specie di terra di nessuno dove i migranti si rifugiano), ecco i pullmann dove non vogliono salire, e giornalisti, free lance o intere troupe, che stazionano in attesa dello scoop o semplicemente per il lavoro di routine (“Come sono venuto?” chiede lo speaker all’operatore, “Passami la telefonata, no… no Sabrina, ora non ho tempo, sì.. si ci vediamo stasera, ciao ciao”, “Merda, mi sono impaperato, quello mi ha distratto” …e amenità varie).
I volontari distribuiscono cibo
e acqua, un anziano passa con un cartello al collo “Mi vergogno di essere francese”, un bambino suona la tromba
giocattolo e rivela doti precoci di jazzista in erba, slogan recitati in coro dai migranti dicono che non torneranno indietro, chiedono libertà, aiuto, qualcuno dice che piuttosto morirà in mare.
Cala la notte sugli scogli, e pietosa avvolge lo squallore molto ben visibile all’alba.
E torniamo alla sequenza chiave, quella iniziale.
Tra gli scogli si aggirano fotografi e reporter, scattano foto a mucchi di cenci stesi a terra immobili. Sembra una distesa di cadaveri, poi una coperta si muove e capiamo che è gente che dorme.
Si può dormire per mesi sopra degli scogli? Che effetto fa aprire un occhio e vedersi puntato addosso un obiettivo a pochi centimetri dal naso? E questo gran fotografare e registrare e intervistare ha cambiato il loro destino?
Deaglio lascia che parlino le immagini, non serve altro, non c’è altro, è il naufragio delle parole.
Abbiamo preso parte a tutti i naufragi, abbiamo preso parte a tutte le rovine, abbiamo preso parte a tutte le cadute, ma il naufragio delle parole ci trova ancora una volta impreparati.
Partecipammo a crolli non previsti, partecipammo a inconsapevoli stermini, partecipammo all’olocausto di generazioni intere, partecipammo senza condividerlo, partecipammo muti al genocidio di popoli ribelli, ma il naufragio delle parole ci trova ancora una volta impreparati.
(G.Patroni Griffi, Prima del silenzio)