In un loro testo fondamentale Jay David Bolter e Richard Grusin, definiscono la Rimediazione come l’assorbimento di un medium più antico da parte di quello più nuovo; questo non compromette del tutto l’esistenza del primo creando una relazione di interdipendenza e cercando di ridurre al minimo le differenze, sopratutto in una fase di passaggio, come per esempio quella da analogico a digitale. Per i due accademici statunitensi, i numerosi processi di rimediazione che hanno attraversato la storia di formati e supporti avvengono senza strappi radicali e mediante un progressivo adattamento percettivo.
Se si applica questa riflessione alle considerazioni di Kevin Systrom e Mike Krieger elaborate nel 2010 poco dopo il lancio della loro applicazione più fortunata, Instagram, è facile rilevare quanto il feticismo per filtri e colori vintage che hanno determinato il successo di numerose applicazioni video-fotografiche sviluppate per smartphone, abbia avuto origine dalla necessità di abbellire l’effetto brutalmente digitale dei sensori a partire da alcuni difetti congeniti come la produzione di rumore, l’assenza di luce, la distorsione dell’immagine e la corruzione delle informazioni processate. Tutto quello che era affidato alla chimica, viene replicato da un simulacro che riproduce l’effige di un’immagine nostalgica, senza la materialità del supporto.
Un feticismo a portata di mano che nella produzione di immagini consumer indica una distanza sempre più ampia rispetto ai processi di rimediazione di cui parlavamo, sopratutto per chi, tra le nuove generazioni, non ha mai preso in mano una fotocamera Polaroid o una cinepresa Super8, ma che intrattiene comunque una relazione mnestica con i vecchi media, basata sul concetto di famigliarità.
Quanto questa tendenza sia andata assottigliandosi negli ultimi cinque anni è difficile stabilirlo, in questa sede ci preme dire che il manierismo di un film completamente immerso in quell’estetica come The Conjuring non è tanto differente da quello del nuovo Poltergeist quando si serve superficialmente dei mezzi digitali, perché in entrambi i casi, con o senza filtri vintage, si tratta di prodotti che non possono (e non vogliono) interrogarsi sulle differenze di un supporto rispetto all’altro, o sul modo in cui sta cambiando la percezione dell’immagine legata alla tecnologia che la veicola.
Non è una questione da poco, e include anche un’altra forma di nostalgia, quella del santino cinefilo al grado più basso, che immaginandosi un possibile livello di artisticità nel recupero pedissequo e neanche tanto filologico del passato, invece di resistere con l’idea di un cinema ec-centrico che non è più, di fatto getta le basi per quello che non è mai stato.
Sull’attenzione ossessiva della Blumhouse per la mutazione dello sguardo in relazione al rapporto quotidiano con la tecnologia, ne abbiamo già parlato in forma riassuntiva in occasione di Unfriended, il piccolo esperimento radicale e immersivo di Levan Gabriadze riuscito solo per metà, mentre per quanto riguarda il ruolo di Sinister, non solo nella factory di Jason Blum, seppur da una prospettiva metafilmica tradizionale che non condivido, Alessio Bosco aveva comunque rilevato alcuni aspetti interessanti nel film di Scott Derrickson.
Ma se come osservava Bosco, il problema era davvero la supposta incapacità del regista/sceneggiatore americano di prendere posizione rispetto allo “scontro” dei formati, il rischio, allora come adesso, è quello di ancorarsi ad una dialettica vecchio/nuovo analogico/digitale figlia di quella cinefilia pretestuosa che da Amelie di Jean-Pierre Jeunet arriva a The Artist di Michel Hazanavicius, facce della stessa lomografia deleteria che racconta un cinema congelato nello stereotipo museale.
Quello che Scott Derrickson rileva con Sinister è al contrario una ferita, una cicatrice tra due modi di concepire l’immagine che non può rimarginarsi, interrogandosi su quel processo di rimediazione di cui si parlava, ma senza cedere all’addomesticamento industriale che cerca a tutti i costi di mantenere intatta la famigliarità tra supporti. Non si tratta quindi di scegliere, fortunatamente, ma di individuare le tracce di un passaggio traumatico che per Derrickson ha una consistenza transmediale. Oswalt (Ethan Hawke) rimane sospeso tra l’immagine su pellicola e la sua digitalizzazione, basta pensare a quello che accade prima del trasferimento su Mac di un filmato quando la proiezione si arresta, bruciando un fotogramma e rivelando quel movimento illusorio che è l’immagine “media”, per come la descriveva Deleuze riferendosi ai 24 fotogrammi al secondo.
Non è tanto il riflettersi di un media su se stesso quanto il passaggio dal supporto cinema a quello di uno schermo tra la scalabilità di altri schermi digitali; non è un caso che all’archeologia del montaggio analogico, Derrickson sovrapponga tutta la prassi del cropping, dell’editing non lineare, degli screen-shots e di infiniti schermi Quicktime sovrapposti, messa in abisso del materiale originale. In questo stato transizionale, la lotta che Oswalt ingaggia è più con i mezzi di riproduzione, con il proiettore Super8 che si accende improvvisamente, con il film nuovamente caricato sulle bobine più che con la figura di Bughuul, essere immateriale che si manifesta come un fotogramma di giuntaggio e che in base al Cristianesimo primitivo raccontato via screencast dal professor Jonas, abita tutte le immagini, attraverso le quali può possedere chi le guarda.
Se da una parte questa continua circolarità sembra porre al centro la celluloide, in quell’incredibile immagine conclusiva che vede la figlia di Oswalt camminare in un corridoio coperto da un artefatto di sangue non così distante dalle rappresentazioni pittoriche del paleolitico, più che una scelta di campo, nei continui processi di rimediazione che il film individua, si tratta di una riflessione sul contrasto tra immaterialità e materialità inscritto nei vecchi supporti analogici, ancora in grado di trasformare il tempo, arrestarlo, mandarlo al contrario, bruciarlo, metterlo a morte con un intervento manuale che alteri il suo stesso funzionamento meccanico. Il ruolo che Derrickson destina a tutto l’apparato archeologico è per certi versi lo stesso che investe di un significato perturbante i vecchi edifici del cinema gotico, ma con un lavoro più sottile sulla famigliarità del ricordo, a cui sovrappone immediatamente il suo rovescio inquietante. Non è solo la qualità rassicurante del footage d’annata che improvvisamente cambia di senso, ma sono gli stessi massacri filmati, sospesi tra gioco e tetra iperrealtà, quotidiano e sadismo, in una riproposizione raggelante e distante attraverso il tempo dei formati, di quella stessa esperienza che ogni giorno facciamo nella commistione pornografica tra una session di Periscope e la violenza esperita e condivisa attraverso gli smartphone; attrazione e repulsione per il male.
Ma tra le idee più forti di Sinister, a cui si lega la possibilità, industriale o meno, di un sequel c’è anche lo spossessamento della soggettiva omicida che nel primo film rimane sospesa nella continua rimediazione di cui si parlava. È il film ad uccidere? Oppure è Bughuul? Sono forse i bambini? O è il nostro sguardo, complice, quando cerchiamo una giustificazione politica e morale al sangue versato dagli altri? È la famiglia nelle sue dis-funzioni, centro di molti film di Derrickson, diretti, scritti e prodotti? da The Exorcism of Emily Rose fino a Devil’s Knot di Atom Egoyan per arrivare al recente Incompresa, l’ultimo film di Asia Argento.
Derrickson e Robert Cargill tornano a scrivere rivisitando il primo film da una di queste prospettive e affidando la regia all’irlandese Ciarán Foy, autore del discreto Citadel, piccolo film con molti debiti nei confronti di Philip Ridley (Heartless ma non solo) e altri dovuti al misconosciuto Harry Brown, sopratutto nella rappresentazione di una suburbia tra Ballard e crimine. A produrre è la politica a basso costo di Jason Blum qui ottimizzata sul tetto massimo dei cinque milioni per trenta giorni di riprese, contro i tre e mezzo di Citadel per 23 giorni di riprese, a conferma del fatto, come ha dichiarato lo stesso Foy in una serie di interviste, che non c’è stato un salto rilevante nei mezzi e nei metodi, giusto per sfatare la solita vulgata sul passaggio da una fiera militanza indipendente ad un contesto produttivamente più ricco; al di là dell’inutilità, considerazione peregrina e del tutto falsa, numeri alla mano.
Sinister 2 vive certamente di rendita rispetto al primo capitolo, ma conferma il talento di Derrickson come sceneggiatore, capace di lavorare sul rovesciamento dell’evidenza, aspetto per esempio rintracciabile nella lenta erosione del courtroom drama che attraversa tutto Devil’s Knot, dove luoghi e spazi “comuni” vengono continuamente svuotati e de-funzionalizzati, ma anche nei continui motti di spirito che attraversano Liberaci dal male, il film a tutt’oggi più diseguale, eccessivo ma allo stesso stimolante del regista americano, proprio nel far collidere parola e immagine, due elementi da sempre in contrasto nella scrittura di Derrickson.
I dispositivi analogici proliferano in Sinister 2, dai vinili alle vecchie radio ad onde medie, oltre ovviamente alle cineprese a passo ridotto e ai relativi proiettori; se da una parte la parata ha tutta l’aria di una replica didascalica rispetto alla posizione di transito che i dispositivi analogici occupavano nel primo film, è anche vero che Derrickson e Cargill non cercano di ripeterne la stessa dinamica, concentrandosi su altri aspetti e mantenendo l’immaterialità di Bughuul come entità nomade, vicina alle situazioni disfunzionali e di volta in volta propellente che anima le azioni di Zach Collins, il fratello malvagio, più volte associato alla figura di Clint Collins (Lea Coco) il padre di famiglia violento e brutale, secondo lo stesso Cargill altra faccia del demone principale, che sceglie il male consapevolmente e non ha alcun bisogno di essere posseduto.
Bughuul diventa quindi una figura parassitaria più che un agente reale del male; è del tutto chiaro nelle pulsioni che spingono Zach contro il fratello e in quella parodia dell’autorialità cinefila che lo vede impegnato a realizzare “il film migliore” di tutti. Da questo punto di vista, la nota a margine che ci spiega l’epifania di Bughuul attraverso la produzione artistica può sembrare una pezza applicata sul film, per spiegare ciò che rimaneva in una forma ambigua nell’avvitamento transmediale del precedente, ma diventa nuovamente interessante dal momento in cui Derrickson, Cargill e Foy eliminano del tutto i riferimenti pittorici, i dispositivi digitali e altre forme di rappresentazione, citando esplicitamente altri film da Peeping Tom, al Villaggio dei Dannati, fino a Children of the corn. Un rapporto non riconciliato con la cinefilia che diventa esplicito quando la madre dei due bambini (Shannyn Sossamon) spegne il televisore impedendo loro di godersi il finale de La notte dei morti viventi di Romero, film di riferimento per entrambi i capitoli di Sinister, non solo in virtù dell’ambientazione in Pensylvania, ma per la centralità della famiglia come luogo in cui il male si annida. Il fatto che il cinema di Derrickson sia animato da una prospettiva (mai negata) di ascendenza cristiana non rende certamente la sua visione meno politica.
Tornano quindi alcuni elementi precisi nel connotare la natura dell’immagine-cinema per come la conoscevamo, dal valore della luce, con la torcia che smaterializza e materializza le figure trasparenti dei bambini, fatti della stessa materia della celluloide, oppure Zach che viene imprigionato in un fotogramma mentre perde l’illusione del movimento e si brucia.
Sinister 2 è in questo senso un film minore, dove il tocco di Derrickson si percepisce a tratti, ma mantiene fermi alcuni aspetti legati ad un’idea di cinema che sfruttando i confini del genere, li oltrepassa per riflettere sullo statuto dell’immagine e sul nostro ruolo, oggi, non solo come osservatori, ma come produttori di quello stesso immaginario storicizzato, disincarnato, ri-messo in scena attraverso gli archivi digitali, ri-prodotto dai dispositivi mobili. È francamente qualcosa in più di quell’immagine dell’abiezione di ascendenza tutta letteraria (quella si, del tutto arty e nostalgica, per quanto “ben fatta”), che faceva più paura trent’anni fa nei film di Neil Jordan, lettore più attento di Kristeva e Angela Carter.