Sulla coda declinante della moda che, dal primo Twilight in avanti, ha saturato l’universo mediale di nuove elaborazione dell’archetipo vampiresco, Jim Jarmusch ha proposto a Cannes 2013 il suo punto di vista sulla figura del non-morto ritratto su pagina da Stoker, dimostrando ancora una volta che, nelle giuste mani, può risultare un veicolo ideale per parlare dell’umano, delle sue aspirazioni e dei tempi che viviamo.
In Solo gli Amanti Sopravvivono, L’accolita di vampiri colti e disillusi che si rifugiano nella consolazione dell’arte per non vedere la decadenza che li circonda, non può non far pensare alla caricatura della cerchia di artisti in cui lo stesso Jarmusch si muove, tra dipendenze sospette, repulsione per la luce dei riflettori e sintomatico mistero. Più che dissoluti e feroci predatori notturni, gli Adam e Eve di Hiddleston e Swinton sono di conseguenza dei dandy romantici in estinzione, emuli di Faust (puntualmente citato) scesi a patti col diavolo per la fame di conoscenza eterna e assoluta, salvo poi rimanere disgustati dai modi in cui l’umanità è capace di sprecarla.
Per quanto ben radicata nelle origini del mito vampiresco e accennata in moltri altri suoi adattamenti, questa angolazione dell’archetipo viene esaltata dal glamour dimesso e rock dell’estetica Jarmuschiana (di cui la primissima scena funge da saggio esemplare) e dalla scelta di ambientare gran parte del film nella decadenza post-industriale di Detroit. Tra le strade esangui dell’ex Motown, nascosti nei suoi palazzi abbandonati, abbracciati a chitarre che hanno scritto la storia del rock o in gita di piacere nei grandi teatri trasformati in parcheggi, discettano con ironia dei bei tempi andati e degli artisti incontrati e aiutati lungo i secoli, ergendosi a numi tutelari delle eccellenze mortali e permettendo furbescamente al regista di snocciolare il proprio olimpo letterario e musicale, esteso da Joyce ad Eddie Cochran, da Schubert e Marlowe fino a Jack White. Esercizio perfettamente in linea con la facile quanto schietta dichiarazione di poetica del titolo: solo attaccandosi con forza alle proprie passioni si trova la forza di opporsi al declino.
Perfettamente coscienti della mitologia a cui appartengono, usano come nomignolo spregiativo per i comuni mortali la parola “zombie”, ovvero l’opposto antitetico del mai citato termine “vampiro” , il mostro simbolo della massa implacabile e impersonale in contrapposizione al superuomo che ha voluto trascendere i limiti dell’essere umano. Un freddo distacco che finisce per meritare l’appellativo di snob da chi vive la propria condizione di vampiro con feroce vitalità.
A quattro anni di distanza da the Limits of Control, in cui la narrazione cedeva il passo all’astrazione geometrica delle immagini, Jarmusch, ritrova il piacere di un racconto compiuto e divertito, costellato di strizzatine d’occhio al pubblico e mai così immerso (paradossalmente) nell’attualità, pur mantenendo intatta la sua andatura compassata e ciondolante, la coolness stropicciata che da sempre caratterizza sua produzione. La furbizia già menzionata finisce per trovare giustificazione e implicita ammissione nel finale: in tempo di crisi, è concesso sporcarsi le mani. E in qualche caso fare i conti con la realtà può evitarti l’etichetta di snob e restituire linfa vitale ad una vena creativa a rischio esaurimento.