L’uomo contro il suo stesso paesaggio , oltre ad essere una frase dello stesso Ridley Scott, indica un’immagine ricorrente nel suo cinema e se il desiderio di girare un western sembra non abbandonarlo tanto da aver recentemente adattato Blood Meridian di Cormac McCarthy insieme allo scrittore americano e a Bill Monahan, The martian è la stilizzazione di quest’idea, espansa e allo stesso tempo compressa dalla fotografia di Dariusz Wolski, nel tentativo paradossale di mettere insieme isolamento e confronto epico.
Ma ad eccezione della tempesta notturna di sabbia, del pezzo di ferro estratto dal ventre dell’astronauta Mark Watney e dei movimenti ellittici fuori e dentro l’astronave in missione, sembra che l’empirismo visionario del regista inglese si limiti a pochi altri elementi, favorendo l’esercizio di smontaggio filosofico del genere, tipico della scrittura di Drew Goddard e salvando il film dall’ingombrante presenza del motto di spirito, solo quando Matt Damon smonta e rimonta Hab, razzi e vecchi Pathfinder come se fossero relitti di una tecnologia obsoleta.
In questo senso, più che alla presenza pervasiva di una comunicazione sincronica, come quella dei sistemi connettivi che penetrano il tempo dei fatti, sembra che Goddard si sia divertito a ripristinare il protocollo delle prime chat Inter Relay con i caratteri ASCII codificati a 7 bit, per raccontare un rallentamento della comunicazione che allude al rovesciamento parodico e retro-futurista di quel “sempre connessi” degli attuali sistemi di mappatura 3.0.
E in un certo senso Scott lo segue innestando tutta la fantascienza “umanista” tra i sessanta e i settanta che conosce, a partire da Silent Running di Douglas Trumbull con Matt Damon che fa il botanico come Bruce Dern, fino a recuperare Robinson Crusoe on Mars di Byron Haskin, proprio nell’inventiva e improbabile riconfigurazione ludica del profilmico, tra pannelli solari e teli di nylon, unici momenti in cui si gioca con i generi per agevolare il confronto combinatorio tra spazio e set.
In opposizione, Goddard sembra voler spiegare e razionalizzare tutto, schematizzando l’azione con il contraltare dei tecnici della NASA, come se fossero impegnati in una descrizione metavisiva di quello che succede sul pianeta rosso, tanto da far venire in mente quel disvelamento dell’illusione che era l’ossatura di Capricorn One, film diretto nel 1977 da Peter Hyams e tutto incentrato sulla mistificazione televisiva di una spedizione su Marte.
Se c’è un aspetto, potentissimo, nel cinema di Ridley Scott, è la relazione non riconciliata tra simulazione e improvvisazione empirica di cui parlavamo in relazione a Exodus, vera e propria zona di guerra, come scrive Maurizio Morganti nel suo bel pezzo su Blade Runner, che sfugge e si rivolta contro il consolidamento di qualsiasi strategia narrativa.
Ci piace pensare che lo sguardo di Scott, in The Martian, si liberi proprio quando ormai il testo di Goddard non serve più a nulla e il nylon che separa l’occhio di Mark Watney dalla deriva stellata, vola via per mostrarcelo nuovamente con-tro il suo stesso paesaggio.