Anno 2055, estate. Immagini di una tra le tante periferie della Spagna si alternano mostrandoci un desolato paesaggio urbano fatto di caseggiati popolari e grattacieli, ancora in cantiere o abbandonati. In uno di questi palazzi in costruzione, in un appartamento semi rifinito un uomo abbigliato da operaio edile sta fuggendo. Un individuo in giacca e cravatta lo insegue. L’operaio cade in terra, l’inseguitore lo raggiunge, gli punta addosso una pistola e, senza alcun indugio, gli spara addosso uccidendolo.
La scena cambia, siamo in una copisteria. Quella a cui assistiamo è una situazione di quotidiana vita lavorativa in cui un’impiegata fa fotocopie, prendendo nota su di un registro. D’un tratto qualcuno irrompe. Noi non lo vediamo, resta fuoricampo, udiamo solo degli spari. La donna si accascia al suolo con la camicetta che si squarcia all’altezza del torace. È morta.
Seguono immagini di repertorio, pseudo filmini amatoriali girati in super 8. Sono frammenti provenienti dal passato: feste in cui anziane coppie danzano al ritmo di musiche da balera, compleanni, rimpatriate tra amici vecchi, tableaux vivants di anziane coppie sorridenti forse riprese proprio in quegli appartamenti che all’inizio del film vengono mostrati vuoti.
Ritorniamo al presente, questa volta nella cucina di un ristorante. Un giovane cuoco è ai fornelli, si concentra sul suo lavoro, poi ancora una volta il suono di spari, ancora una volta un corpo che crolla in terra, senza vita.
Ad accomunare queste vittime tra loro, oltre al loro assassino è il fatto che si tratta di androidi immigrati sulla terra. I riferimenti intertestuali al romanzo distopico di Philip K. Dick: “Do Androids Dream of Electric Sheep?”, pubblicato nel 1968 (e dal quale venne tratto, nel 1982, Blade Runner, di Ridley Scott), sono chiari, incluso un breve dialogo tra tre personaggi, una coppia con figlio di pochi mesi e un loro amico appena giunto sulla terra, persone normalissime che scopriamo così essere degli androidi.
Quanti sono? Da dove giungono? Cosa cercano? Non ci è dato saperlo, così come non ci viene data nessuna informazione circa il loro ‘sterminatore’ (Manolo Marin), se non che questi è un appassionato di pecore, animali diventati ormai costosissimi (4 milioni e mezzo di peseta a capo).
Una cosa è certa. L’umanità messa in scena è ormai al crepuscolo e sta lasciando posto a qualcosa di nuovo.
A livello formale, il lavoro di Ion de Sosas (True Love, 2011) si caratterizza per un utilizzo pressoché totale di inquadrature fisse, diligentemente ispirate ai lavori di Stephen Shore, William Eggleston e del New Topographic Movement (v. Lewis Baltz). A queste fanno da contrappunto le inquadrature casalinghe in uno stile a metà strada tra super 8 e instagram. Il sonoro contamina musica elettronica e industriale a campionamenti ambientali e viene spesso adoperato in chiave empatica per enfatizzare i passaggi narrativi chiave. Il montaggio prevalentemente semantico ha un ritmo piatto, manca una qualsivoglia accelerazione.
A livello narrativo, tutto ciò si risolve in un intreccio che si sviluppa per accumulazione. Non esiste una logica narrativa forte che regoli l’avvicendarsi dei fatti secondo una strategia testuale ben definita. Il tutto si riduce a seguire lo sterminatore nella sua caccia agli androidi.
Riguardo ai personaggi, questi sono piatti, statici. Gli elementi che caratterizzano gli androidi sono in breve riassumibili: si tratta in prevalenza di giovani attivi lavorativamente in condizioni di precariato, animati dalla voglia di conquistarsi un’esistenza ‘umanamente’ piccolo borghese.
Riguardo agli umani, oltre al fatto che si tratta per lo più di anziani e che hanno una smodata passione per i sempre più rari animali domestici, si sa poco o niente.
Se la storia si presenta di per sé (volutamete) alquanto oscura e lacunosa, il messaggio politico e sociale che essa custodisce emerge prepotentemente. La società spagnola, gerontocratica e chiusa nelle sue paure, sta negando il diritto di esistenza tanto alle nuove generazioni e agli immigrati, quanto alle diversità di cui questi sono portatori. E così facendo si auto-condanna al declino.
E per il resto, sì, in risposta al titolo del romanzo di Philip K. Dick ora lo possiamo dire: gli androidi sognano.