martedì, Novembre 5, 2024

Tarr Béla, I used to be a filmmaker di Jean Marc Lamoure al Torino Film Festival 31

Dal dicembre 2008 al giugno 2010 Béla Tarr e la compagna Agnes Hranitzky sono stati impegnati nella realizzazione del loro ultimo film “familiare”, A Torinói nó (Il cavallo di Torino).
Universo chiuso di pochi eletti, la “famiglia Tarr” durante le riprese si è aperta eccezionalmente a Jean-Marc Lamoure, e quel che ne è derivato è un documento imperdibile, presentato al Festival International de Cinéma de Marseille e al TFF 2013 nella sezione Documenti. Non è un backstage, è molto di più, è entrare nel laboratorio dell’ artista e vederlo all’opera, con i suoi materiali, le sue pause, i suoi momenti di vita reale dietro le quinte. E’ assistere all’atto creativo nell’eccezionalità del suo farsi, seguendo l’artista nella sua quotidiana normalità. La “famiglia Tarr” ha annullato i confini fra vita e cinema. Composta da László Krasznahorkai (autore e cosceneggiatore di tutti i lungometraggi di Tarr a partire da Dannazione), Mihály Vig (autore delle colonne sonore), Fred Kelemen (direttore di fotografia), Téni Gábor (produttrice), Ágnes Hranitzky (compagna del regista e co-direttrice) e, per questo film, i due attori, Janos Derzsi ed Erika Bók, è stata una realtà fino a quando il grande regista magiaro non ha deciso di chiudere con il cinema dopo A Torinói nó,quell’Orso d’Argento a Berlino 2011 che definire capolavoro significherebbe togliere qualcosa ai film precedenti. Una storia di capolavori, quella di Béla Tarr, e una decisione irrevocabile, che sentiamo pronunciare dalla sua viva voce anche in questo documentario di Lamoure, e con poche parole molto semplici: “Per me è meglio smettere di girare film”. “I’m not a filmmaker anymore” aveva già dichiarato al New York Film Festival nell’ottobre 2011, e quello che aggiunse è una purissima formulazione di amore per il suo lavoro: “Ho avuto la sensazione che il lavoro fosse finito. Compiuto. Non c’è ragione per ripetere nulla, nessuna ragione per fare copie di questo linguaggio o di questi sentimenti, perché voglio proteggerli. Da me stesso. E ho voglia di darli a voi. Abbiamo creato, prendere o lasciare. E questo è tutto. Ed io penso che sia abbastanza per me.” Vedere questo documentario aiuta a capire una decisione così particolare, ma soprattutto ci pone in un’angolo di osservazione inusuale, straordinariamente istruttivo per entrare in un mondo e in un modo di fare cinema che in trent’anni ci ha regalato opere inimitabili: “Quando ho iniziato avevo 22 anni – raccontava Tarr in un’intervista di qualche tempo fa – e ho trascorso 34 anni con il cinema, e passo dopo passo volevo andare sempre più vicino al film puro, molto minimale. Volevo solo fare qualcosa che è essenziale e che ti dice che la vita è molto semplice, piena di routine quotidiana, ma ogni giorno è diversa. Fai sempre la stessa cosa, ma ogni giorno in modo diverso e la vostra vita, anche la mia, può essere più debole e più debole, di giorno in giorno, ed entro la fine solo sparire. Nessuna apocalisse, nessun grande show televisivo, niente, solo scomparire. Ed è quello che volevo dire. Come una condanna definitiva. ” Lamoure ha interpretato con chiaroveggenza queste parole scegliendo il set di A Torinói nó: “…volevo andare sempre più vicino al film puro, molto minimale” Questo film è infatti la summa della sua opera, un punto d’arrivo oltre il quale Tarr sa che non si va, e lo afferma con la forza di quelle immagini che s’imprimono nella memoria, prima che alla vista. Per questo scherza con i compagni durante le riprese: “Mai più regia, basta. Voglio andare a Panama, in pieno sole, con un bel sigaro”. Lamoure segue la costruzione del film e assembla immagini di archivio da Sátántángo e Werckmeister harmóniák con sezioni di lavoro della troupe alle prese con alcune delle sequenze più significative di A Torinói nó. Dei primi due film sceglie momenti memorabili, come quel camminare convulso della piccola Estike, in Sátántángo, con gli occhi sbarrati e il gatto morto sotto il braccio, o l’immagine cristologica e demoniaca insieme del vecchio nudo, inerme e spaventato, nell’ospedale di Werckmeister harmóniák, di fronte al quale si arresta la violenza distruttrice della massa inferocita. Per A Torinói nó seguiamo da vicino alcune riprese, come la costruzione della sequenza iniziale, come scrivevo qui, quella del “… carretto sgangherato che per sei minuti, in apertura, un uomo anziano guida nel mezzo di una tormenta di vento e polvere, trainato da un cavallo estenuato, il mantello spelacchiato e corroso dagli anni, una sequenza di raffinata maestria con la macchina da presa che gira intorno al carro, si avvicina e si allontana, non stacca mai, creando un ritmo di danza funebre, l’apocalisse annunciata che la musica accompagna in sincronia perfetta” Qui vediamo la scena in negativo, mentre il camion con la macchina da presa avvolta in una busta di plastica in bilico sul predellino segue il carro, gli gira intorno e riprende dal basso il muso del cavallo, si avvicina pericolosamente al suo ansimare. In alto un elicottero alza turbini di polvere mentre Tarr dirige, dà il via o ferma l’occhio e il movimento della macchina. Elaborazione di un’estetica, messa a punto di una meditazione filosofica, creazione di una mitopoiesi, tutto questo è stato A Torinói nó, messaggio di portata universale sulla condizione umana e sul cinema, sulla loro fine o sulla eterna ambiguità del loro esistere. Costruire un’idea per mezzo di immagini in movimento, fissarle in un naturalismo apparente creando il vento con pale elettriche e gettando manciate di foglie secche che volano da sacconi di plastica della spazzatura, seguire in tre, quattro uomini con macchina a spalla l’attore che cammina o far scorrere piano, pianissimo, la macchina sul carrello, seppellire quasi la mdp nella terra perché “così s’inquadra meglio quell’albero, sul fondo, e la cima di quella collina dove l’occhio si deve fermare, perché oltre non si va”, decidere come inquadrare la finestrella da cui si vede arrivare Bernhard e poi implorare Bernhard di non caricare di enfasi le parole di quello straordinario monologo, ma solo di tanta tristezza… Non c’è un solo piccolo angolo in cui qualcuno possa nascondere qualcosa da loro, perché qualunque cosa su cui possono allungare le mani…è loro. Anche le cose che pensiamo non possano raggiungere sono in loro possesso, perché il cielo è già loro, e così tutti i nostri sogni … Possiedono i momenti, la natura, l’infinito silenzio… Anche l’immortalità è loro, capisci? Tutto… tutto è perso per sempre!!!

Questa è la grande macchina del cinema di Bela Tarr, la sua linea di confine fra realtà e finzione, ma un confine sempre sfuggente, impossibile dire dove finisca l’una e cominci l’altra, e il perché lo abbiamo davanti agli occhi, lo sentiamo nelle parole di qualcuno sul set: Con Bela no, devi esistere. Correre fuori con una patata cruda e iniziare la rivoluzione? E’ impossibile.

Con Bela “nulla è sacro, tranne la vita”, non c’è finzione che regga, il cinema e la realtà si fondono. E quando tutto è stato detto, basta regia, stop, meglio il sole di Panama.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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