Pema Tseden è il primo cineasta Tibetano in assoluto a delineare un percorso specifico nella storia del suo paese; se il primo lungometraggio ad essere prodotto in Tibet è Phorpa, girato da Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoche nel 1999, a partire da The Silent Holy Stones del 2005, Pema Tseden offre per la prima volta una rappresentazione del Tibet fuori dall’esotismo di marca occidentale e dal misticismo di Phorpa, concentrandosi maggiormente sulle contraddizioni attuali del paese; questo grazie anche ad un’identità forte come romanziere e al rigore dei quattro lungometraggi, tutti legati all’utilizzo del piano sequenza come unità fondamentale del suo cinema e alla costruzione dell’immagine nel rapporto di forza tra ambiente e personaggio, una tensione che passa da un’opera all’altra come se fosse parte di un percorso di resistenza rispetto alla scomparsa di un mondo fortemente legato alle proprie tradizioni e improvvisamente assalito da un senso di perdita e disorientamento.
Lo stesso Pema Tseden descrive il suo rapporto con l’immagine come una rilettura delle tradizionali pitture su rotolo, dove “tutte le storie sono presenti e visibili in una sola immagine“. Tra i monaci di The Silent Holy Stones, la compagnia teatrale di The Search, il vecchio che vuole uccidere il suo cane in Old Dog e Tharlo, il pastore che vive con 375 pecore sulle montagne, c’è un tratto comune, quello di un gruppo di esiliati che entrano in contatto con l’eco di una società globalizzata i cui effetti sembrano arrivare da lontano, per introdurre lentamente il germe della solitudine.
La resistenza di Tharlo agli effetti della modernità è assicurata da una prodigiosa memoria che gli consente di ripetere a memoria, senza prendere respiro, i discorsi di Mao rivolti al popolo. Le parole del Presidente sono una luce per il pastore e gli indicano costantemente quali siano le qualità da perseguire per vivere rettamente.
Quando gli verrà chiesto di scendere in città per fare una foto ritratto, utile per emettere la sua prima carta d’Identità, Tharlo sarà costretto a scendere al villaggio più vicino.
Pema Tseden ci mostra pochi elementi della città, tra lo studio fotografico, il negozio di una parrucchiera, la stanza chiusa di un karaoke e un locale notturno dove si tiene un concerto. Sono spazi completamente nuovi per Tharlo, che come un bambino, assorbe gli effetti di un mondo nuovo con la stessa purezza con cui recita a memoria gli ammonimenti di Mao.
Pema Tseden colloca la macchina da presa in posizione sempre frontale, spesso inquadrando il riflesso di uno specchio e gli oggetti che occupano lo spazio adiacente, non staccando mai anche quando i corpi escono dalla cornice e raccontando moltissimo sulla mutazione emotiva dei personaggi semplicemente lasciandoli “vivere” nel tempo dello spazio. Sono splendidi tutti i momenti in cui Tharlo interagisce con la parrucchiera, con lo specchio che allinea i volti e le reazioni in un dialogo esperito attraverso gesti e rituali quotidiani.
Pema Tseden si avvicina ancora una volta ad un contesto sociale e culturale destinato all’oblio, tra Wilderness e i veloci mutamenti che attraversano il Tibet, rimanendo all’altezza delle condizioni emozionali e affettive delle persone che ci vivono.