martedì, Novembre 5, 2024

The Canyons di Paul Schrader a Venezia 70: il terminale (im)mobile

Dei quattro teaser diffusi in rete in questi mesi, nel nuovo film di Paul Schrader rimane solamente lo spirito del primo, quello non troppo distante da una slideshow, con alcune prospettive losangeline, come se fosse stato realizzato per promuovere alcuni luoghi della città o un nuovo dispositivo DSLR. Tutto il cinema che usciva dai restanti promozionali era un’esca, una trovata virale fatta apposta per essere messa in circolo dai sistemi di condivisione di massa.

I titoli di testa di The Canyons mettono insieme una serie di scatti visualizzati con quella frequenza di movimento che si riferisce alla nostra esperienza di fruizione attraverso un tablet, uno smartphone, uno di quei dispositivi che sovrappongono la presunta istantaneità della condivisione con l’evento; sono spazi defunzionalizzati, architetture in disfacimento, sale cinematografiche smantellate con insegne ormai distrutte, le poltroncine sventrate, macchine industriali che hanno fatto il loro tempo.

La Los Angeles di Schrader ha le caratteristiche di una città ricostruita su un insediamento primitivo, ormai morto; non è semplicemente Hollywood, come sta capitando di leggere nelle numerose stroncature, al momento quasi tutte provenienti dalla stampa Americana, ma un viaggio tra le macerie di un’esperienza percettiva, la stessa di cui parla lo stesso Schrader con estrema lucidità nel suo cortometraggio per il progetto Future Reloaded, e che rinasce, bene o male non ci interessa, attraverso il modo in cui i new media stanno frammentando la relazione tra immagini e l’illusione del tempo quotidiano, tanto che le prime, diventate ormai instagrammi, costruiscono probabilmente il senso del secondo.

Il cinema, anzi, l’esperienza Cinematografica per come la vorremmo, forse non tutti, nostalgicamente identica a dieci, venti, trenta e più anni fa, rimane ai margini come un rimosso, qualcosa di cui si ha ancora un sentore ma che non fa più parte dell’esperienza diretta.

Sin dal primo incontro che introduce il film, Christian (il pornoattore James Deen) e Tara (Lindsay Lohan) parlano di un ingaggio per una nuova, piccola produzione, Ryan (Nolan Gerard Funk) ha avuto la parte e la fidanzata Gina (Amanda Brooks) , assistente di Christian, ha contribuito in modo risolutivo affinchè le cose prendessero la giusta piega; il cinema di cui si parla è quello dei contatti, delle piccole pubbliche relazioni, dell’esserci come primo propellente creativo, delle rivendicazioni di potere sulla libertà delle idee.

Durante la cena Christian mostra a Tara, non visto dagli altri, alcune immagini dal suo Smartphone, sono fotografie erotiche, scatti intimi, abitudini che condividono privatamente e che di li a poco saranno rivelate ai due commensali; niente di straordinario in fondo, casomai l’ordinarietà dello scambio tra coppie, una trasgressione a portata di clic, l’intrusione dei dispositivi mobili nell’esperienza sessuale, che tecnicamente, muta in prassi connettiva.

Non c’è più spazio per il cinema e per l’esperienza della sala, le magnifiche ossessioni, le immagini più desiderate sono quelle dove si sovrappone produzione e fruizione, performance attoriale e visione scopica.

Nell’unico momento in cui Lindsay Lohan sembra guardare un film sul suo LCD distesa sul letto, l’immagine viene violentemente sostituita dalla connessione Wi-fi con il suo smartphone, lo schermo riproduce uno scambio di SMS che assume una valenza quasi drammatica, è una sequenza prodigiosa, Tara non guarda il suo telefonino, lo usa come interfaccia e guarda con apprensione lo schermo televisivo, come se il linguaggio circolare delle soap fosse improvvisamente diventato un dispositivo che ha disossato le ultime immagini, rimangono caratteri ASCII ed emoticons.

La pornografia non è più quella di Hardcore, non irrompe nel sistema famigliare, ne riesce a rappresentare un processo identitario, ma è un sistema acquisito, una dimensione performativa con un rituale genderizzato; lo sa bene Charlie che davanti al suo psicanalista (Gus Van Sant) dirà “siamo tutti attori” lo dice senza la portata morale che avrebbe avuto, in un contesto e forse dentro un film diverso con l’ossessione illusoria per il disvelamento; Schrader è un teorico più acuminato, non ha intenzione di scoprire l’acqua calda, quanto di esaminare, in modo gelido, il modo in cui la proliferazione di schermi si è sostituita non solo all’occhio, ma all’esperienza aptica; quel “siamo tutti attori” ha quindi il valore di descrivere uno scollamento tra corpo e volontà digitale; in fondo la stessa perdita di identità in The Canyons a un certo punto e materialmente, diventa lo scambio di un cellulare.

The Canyons in questo senso è un film radicalmente Schraderiano, cosi come l’universo di Bret Easton Ellis trova una risonanza perfetta, quasi Ballardiana nella descrizione visiva di una città defunzionalizzata e ri-costruita attraverso gli smartphone, i tablet, le Go-pro; un occhio Globale e disincarnato che non ha più niente da vedere, se non macerie o le auto-parodie di un genere (anche i ‘motivi’ Schraderiani o Ellisiani) che attraversano il film come relitti

Una splendida Lindsay Lohan, unico vero corpo eccedente, livido, grottescamente caricato, sexy e sofferente, rispetto all’asetticità “frocia” che si respira nell’aria, dirà ad un’amica: “Qual’è l’ultima volta che sei andata al cinema? Voglio dire, c’è un film che veramente ha significato qualcosa per te?”

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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