domenica, Novembre 24, 2024

The Daughter di Simon Stone – Venezia 72, Giornate degli autori

The Daughter, il bel debutto dell'australiano Simon Stone, Giornate degli autori

Sono Jan Chapman e Nicole O’Donohue a convincere Simon Stone a fare un film dal suo più noto adattamento Ibseniano per il teatro. Il giovane autore australiano per il suo debutto come regista cinematografico può quindi contare su un’altrettanto giovane produttrice come la O’Donohue e su una veterana come la Chapman, tra le più brillanti in Australia, produttrice dei film di Jane Campion fino a Bright Star e tra gli altri titoli, del recente Babadook di Jennifer Kent.

Stone si occupa interamente dei dialoghi, scrive nuovi personaggi e rende ancora più personale The Wild Duck ambientandolo nel Nuovo Galles del Sud in Australia, in particolare nelle regioni di Tumut e Batlow, circondate da grandi foreste, da industrie abbandonate e da una forza ancestrale che percorre tutto il film.

The Daughter è “un film sulla memoria che non ricorre all’uso del flashback” dice Simon Stone, e concentra in una sola settimana il presente e il passato di una piccola comunità, legata da affetto, risentimento e da un segreto che cambierà del tutto le loro vite.

Christian Neilson – Paul Schneider – torna dal padre Henry, ricco industriale della zona – Geoffrey Rush –  e nel suo paese natale dopo anni di lontananza. Conserva dentro di se un dolore difficile da sdipanare e un segreto che è all’origine di tutto, oltre a coinvolgere la vita di un’altra famiglia. La madre è morta suicida molti anni fa, e sembra che quella perdita abbia spinto Christian in un abisso senza fondo. Mentre la moglie, con cui parla solo via Skype, lo sta lasciando, il padre si sta per sposare con una donna molto più giovane di lui.

I Finch sono invece una famiglia felice. Oliver – Ewen Leslie – ha appena perso il lavoro ma è attraversato comunque da un ottimismo costruttivo; ama molto sua moglie Charlotte – Miranda Otto – e la figlia Hedvig, interpretata da Odessa Young, notevole attrice emergente australiana, che qui a Venezia 72 abbiamo visto anche nel film di Sue Brooks in concorso, Looking for Grace. La ragazza dimostra qualità notevoli per la sua giovane età e vive in speciale simbiosi con la foresta; insieme al nonno – un crepuscolare Sam Neill – salva gli animali feriti e li cura in un’area boschiva, aiutandoli a recuperare, tra questi un’oca selvatica, colpita proprio da Henry Neilson durante una battuta di caccia.

Con questo materiale, Simon Stone imposta una tensione crescente che non esplode mai, lasciando sempre fuori un dettaglio, un particolare, un elemento che ci consenta di capire quali sono gli eventi che legano tutte queste persone. Le connessioni affettive presenti e passate vengono chiarite con la descrizione dei personaggi, sempre in medias res rispetto agli eventi, ma è il climax che viene continuamente spostato, ritardato, depotenziato, con una struttura centrifuga che ricorda in parte l’Egoyan di Sweet Hereafter, film che in qualche modo ci è sembrato seminale per il lavoro di Stone, proprio nella descrizione di una piccola comunità montana il cui dolore è un transfert continuo di responsabilità, una catena che segna anche il futuro, dove chi è stato vittima può trovarsi a perpetrare i medesimi errori subiti.

Stone riesce a deturnare la soggettiva e il centro della questione, collocando i personaggi in una posizione inaspettata, anche in rapporto alle loro azioni; lo fa senza barare e con un controllo notevole di tutti i frammenti. Allo stesso tempo cade forse in qualche ingenuità, giocando un po’ troppo con la sconnessione tra parola e immagine, lasciando che il dialogo spesso diventi una voice over mentre l’immagine è già altrove, approccio certamente interessante, ma che a volte rischia di ritorcersi contro, per l’insistenza in cui utilizza forme come questa, per sottolineare alcuni momenti. E se la sequenza più tragica forse viene dilatata con un ralenti di troppo nell’incertezza tra sottrarre e sottolineare, tutta la parte finale, di grande intensità tragica, racconta a un certo punto la simbiosi di Hedvig con la foresta, sostituendo il suo respiro al rumore del vento e della natura, mantenendo così una scrittura elegiaca, mentre ci sferra un pugno nello stomaco.

Simon Stone da il meglio di se nei confronti tra personaggi e nell’intreccio di gesti che nella loro frequenza quotidiana, assumeranno un valore tragico o semplicemente di polarità opposta rispetto alla posizione che occupavano, dimostrando di essere un autore con un’idea di cinema interessante che probabilmente necessita di un maggiore rigore nel lavoro di sottrazione.

Dirige infatti gli attori con grande attenzione alle sfumature e al rapporto complesso tra dialogo e gesto, sguardo e parola; tutte le sequenze che vedono al centro Odessa Young sono splendide, sia quando elaborano un piccolo racconto di formazione nel racconto, sia quando il carico emotivo aumenta di intensità.

The Daughter  si avvicina alla storia di dolore di tutti i personaggi, evidenziando quanto il passato, come ha avuto modo di dichiarare, “non sia una questione che riguardi solo un singolo” ma coinvolga un’intera comunità, il cui dovere è quello della condivisione.

In questo senso l’immagine di estrema fragilità e oscura durezza con cui chiude il film è di grande potenza e racchiude tutto il senso del film, sul dovere di una comunità di proteggere i più deboli.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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