Lasciandosi alle spalle il realismo sociale dei precedenti film, Oliver Hermanus espande lo spazio visivo del suo cinema al paesaggio Sudafricano osservandolo con il filtro di quello Hollywoodiano degli anni 50. The Endless River, sin dai titoli di testa, richiama il cinema di George Stevens e quello di Elia Kazan, ma spostando lentamente le convenzioni del melodramma sulla lenta assimilazione dei personaggi agli scenari naturali di Riviersonderend, la cittadina in cui il film si ambienta.
A far da sfondo, la questione degli assalti alle fattorie le cui motivazioni razziali sono del tutto controverse e in base alle quali Hermanus crea volutamente un’ambigua immagine del pregiudizio, cambiando il punto di vista in modo impercettibile con quello dei suoi personaggi e non cadendo nella trappola della denuncia sociale, più interessato alla relazione tra fenomeno e individuo.
A subire la razzia è Gilles (Nicolas Duvauchelle), cittadino francese che vive in Sudafrica con la famiglia e i figli; quando verranno massacrati, la sua percezione del paese in cui vive cambierà totalmente, alimentando un desiderio di vendetta che si estenderà alle istituzioni.
Sarà proprio un funzionario di polizia del luogo a suggerirgli un’interpretazione tendenziosa dell’accaduto, in fondo non lontana dalle istanze del South African Agricultural Union e dalla tesi del cosidetto genocidio boero. Il responsabile potrebbe essere Percy (Clayton Evertson) un ragazzo africano appena uscito dal carcere dopo aver scontato una pena di quattro anni. Per il funzionario la motivazione possibile è semplice quanto superficiale, ma Gilles la assimila e l’accetta.
Tiny (Crystal-Donna Roberts) è la moglie del ragazzo uscito di prigione, lo ha aspettato dimenticandosi del suo passato criminale, offrendogli una nuova chance contro il parere della madre. Ma Percy, spinto da un gruppo di balordi a recarsi sul luogo dove si è compiuto il massacro per approfittare dell’attuale stato di abbandono della fattoria, perderà la vita durante la notte.
Hermanus lascia eventi e responsabilità in una dimensione nebulosa, dilatando il tempo delle sequenze e dissipando a poco a poco qualsiasi residuo di detection. Ad interessarlo è la relazione tra Tiny, cameriera in un diner, e Gilles, cliente abituale. I due si avvicineranno nella condivisione del dolore sulle note accennate di Come Wonder with me (qui nella versione degli Hidden Highways) la canzone scritta originariamente da Jeff Alexander e interpretata da Bonnie Beecher per un episodio di Twilight Zone, che racconta proprio dell’amore di un uomo giunto in una piccola cittadina, del suo amore per una nativa e dell’omicidio perpetrato ai danni del fidanzato di lei.
Rispetto alla forma del melodramma, Hermanus lavora per sottrazione, eliminando tutti i possibili climax, svuotando le immagini da qualsiasi tensione, inclusa la sequenza dello stupro, ma al contrario allineandole ad una contemplazione del paesaggio come orizzonte senza fine, spazio naturale persistente e selvaggio anche quando la mise en scène è tra le più inerti, come un ristorante con le onde che si infrangono fuori dalla finestra.
La relazione tra vittima e carnefice è in qualche modo solamente allusa, una possibilità tra le tante, e apre, come nel dialogo tra il poliziotto e Gilles, la possibilità di applicare il proprio pregiudizio personale ad un narrato certamente basico, semplificatissimo ai limiti dello stereotipo, ma proprio per questa labilità, fortemente sfuggente, possibile e ambiguo.
Anche per questo Hermanus rallenta progressivamente il film e si avvicina ai due personaggi rilevandone i gesti, le reazioni, i silenzi e mutuando la lezione del cinema americano classico in un contesto completamente diverso.
Sorprende che senza alcun strumento critico specifico a supporto (l’annoso problema della critica gossippara che ha fatto, forse, un solo esame di storia del cinema nelle nostre università del disastro) si sia parlato con toni molto spregiativi del film sottolineandone i supposti eccessi, quando al contrario se c’è un limite nel film di Hermanus è forse l’estrema perizia culturale nel riferirsi ad un genere allo scopo di scarnificarlo ed applicarlo ad una visione politica molto personale e non così scontata, ricca di segni che avvitano cultura popolare a istanze sociali del Sudafrica degli ultimi vent’anni. Hermanus non è certamente Todd Haynes, ma è anche vero che se l’acume fiammeggiante non è quello dell’autore di Far from Heaven, non c’è compiacimento nel suo cinema, forse a tratti solo un po’ di freddezza.
Rimangono alcuni momenti di cinema a nostro avviso molto intensi e questa libertà dello sguardo, anche in relazione alla definizione scopica del pregiudizio, che fanno di The Endless River un film affascinante e aperto, irrimediabilmente lanciato verso l’orizzonte o se si vuole, il vuoto: Oh where is the wanderer | Who wandered this way | He’s passed on his wandering | And will never go away