Mohsen Makhmalbaf ritorna a Venezia dopo il favorevole riscontro di pubblico e critica con Il Silenzio. E come nel film del 1998, decide ancora una volta di adottare lo sguardo e le percezioni di un bambino per raccontare il duro affacciarsi ad un’esistenza crudele, che si muove tra il gioco e il lavoro, tra la fantasia e la cruda realtà, tra la ricchezza e la povertà, tra l’infanzia spensierata e la funesta età adulta.
The President racconta la fuga di un dittatore in compagnia del giovane nipote tra le rovine di uno Stato fittizio in rivolta. Il viaggio dei due verso la salvezza assume però i toni allegorici di un affondo nei luoghi della consapevolezza, in un progressivo spogliarsi dal loro status gerarchico, fino ad entrare in contatto con il mondo vero, a scontrarsi con il frutto del proprio iniquo operato. Ma il distacco dai fasti del palazzo reale coincide anche con l’incipit ad un processo di crescita, sia da parte del bambino (impara il significato di morte e dolore) che dell’anziano dittatore (apprende le tragiche conseguenze dei mali inflitti al suo popolo).
Un’evoluzione della trama che trova riscontro e si riflette anche nell’impianto registico, passando da campi totali, inquadrature simmetriche, luce diffusa e cromie luminoso a piani ravvicinati, particolari, colori cupi e una persistente patina polverosa, quasi a scandire quella capitolazione che coincide con un brusco stravolgimento; da un’artificialità ostentata e spersonalizzante, ad un avvicinamento fisico e simbolico ai volti dei personaggi, quasi a carpirne le impercettibili emozioni e il graduale emergere di sentimenti puri, sinceri; dall’astrazione di una vita fuori dal mondo al traumatico ma illuminante contatto con la vita vera.
È infondo una soluzione narrativa già ritrita quella che adotta il regista iraniano, ma che trova in questo film un’originale ridefinizione, attraverso l’immedesimazione nel punto di vista del cattivo. Ma ciò che Makhmalbaf vuole intendere è proprio questo. La possibilità di raggiungere quelle emozioni autentiche, mosse da un affetto disinteressato, solo attraverso l’inevitabile condivisione di un dramma e l’approdo a quei sentimenti sinceri, in una cognizione empatica del dolore dell’altro. Un significato sublimemente espresso nella scena della condivisione in circolo del sorso di vodka e del tiro di sigaretta da parte di un gruppo di ribelli, in cui si confonde anche il vecchio dittatore, camuffato dalle umili vesti. È il principio della tavola rotonda, la definitiva disfatta delle gerarchie, in un democratico quanto utopistico livellamento sociale, rappresentato da quell’onda marina che nel finale si abbatte sul castello di sabbia, riportando la riva alla sua forma piatta, al suo regolare e immacolato piano uniforme.