Ti West torna a lavorare con Eli Roth, qui in veste di produttore, abbandona la vena old school dei suoi horror più recenti (The Innkeepers) e si butta con la testa e i piedi in un nuovo corso found footage, mantenendo i contatti con il passato (personale e del cinema) solamente nel modo “alla Ruggero Deodato” con cui ha costruito tutto il dispositivo di comunicazione virale intorno al film, poster incluso, memore di alcuni mondo movies tra il 60 e i 70.
Sam (Aj Bowen) è un reporter di Vice Magazine; viene contattato da Patrick (Kentucker Audley), fotografo, la cui vita personale ha subito un brutto colpo; la sorella Caroline dopo aver fatto perdere le sue tracce, torna a scrivere al fratello per raccontare la sua nuova vita all’interno di una misteriosa comunità stanziata in un’imprecisata località tropicale. I due, insieme al cameraman Jake (Joe Swanberg) partiranno alla volta di Eden Parish, per sincerarsi di persona sullo stato di salute di Caroline e per capire in cosa consiste l’attività comunitaria del luogo. Saranno accolti da uomini armati e scortati dentro l’area protetta.
Dopo un primo, durissimo, impatto tutto all’interno sembra funzionare secondo ottimi principi di armonia, vita in comune, condivisione religiosa; Sam è intenzionato ad andare sino in fondo e ad intervistare quello che tutti chiamano “Father”, il fondatore di Eden Parish interpretato da un sorprendente Gene Jones.
Sarà quindi allestita un’intervista audiovisiva pubblica, con tutta la comunità presente, un faccia a faccia tra Sam e “Father”. L’atmosfera si farà tesa per alcune domande legate ai sistemi di auto finanziamento della struttura, cosi da concludere il dialogo bruscamente con un senso strisciante di diffidenza reciproca e trasformare le ore successive in un incubo, dove ovviamente niente è quel che sembra, perché dietro la facciata di armonia religiosa e comunitaria si nasconde un regno di coercizione, abuso, violenza, sopraffazione, traffico di droga.
Chiaramente ispirato ai fatti di Jonestown in Guyana e al suicidio di massa dell’intera comunità che nel 1978 era guidata dal reverendo Jim Jones, il film di Ti West ha tutte le caratteristiche, difetti inclusi, del cinema Horror che si affida al dispositivo documentale. Questo significa, un ottimo controllo della tensione in tutta la parte esplorativa all’interno della comunità, spesso sostenuta dalla musica di Tyler Bates che si affida a pattern ritmici di cronometria Carpenteriana, e il meccanismo che comincia ad incepparsi quando le esigenze narrative si staccano dal rigore forzato di un cinema costruito per essere “en directe” a tutti i costi.
Tutta la lunga ed estenuante sequenza dove il cameraman fugge nella foresta alla ricerca dell’elicottero che dovrebbe riportarlo a casa, per poi tornare indietro a prelevare i superstiti rimasti ad Eden Parish, è costruita sull’idea che l’unica testimonianza visiva sia la pesante videocamera che Jake trascina con se; Ti West cerca di costruire un’azione “plausibile” a partire dal contesto, come fosse un continuo cortocircuito tra diegesi ed extradiegesi; è solo un esempio, ripetuto come motivo ricorrente, in vari momenti del film, e che appesantisce la libertà del racconto attraverso un’istanza teorica pretestuosa ma sopratutto, fragilissima; talmente fragile da arrivare all’auto-disinnesco.
Il lungo e doloroso martirio che rade al suolo l’intera comunità è forse il momento più convincente di tutto il film nella vicinanza ai corpi, proprio perché esce dalla tirannia di un realismo costruito ad hoc dove l’organizzazione del set rimane l’arena di produzione del senso, assolutamente centrale e soprattutto, fortemente percepibile; aspetto che tra l’altro non è alieno al modo in cui Vice ha costruito la propria retorica visivo-documentale ai limiti della falsificazione, o meglio, senza giocare in modo positivamente ambiguo su quel confine tra documento e finzione.