domenica, Dicembre 22, 2024

The Turin Horse di Béla Tarr

Immaginarsi una distribuzione Italiana per il Cinema di Béla Tarr, uno dei cineasti contemporanei più importanti, è evidentemente impossibile. Questa sera, l’ultimo film del regista Ungherese, A Torinói ló, sarà trasmesso su Rai3 all’interno di Fuori Orario, a quasi un anno di distanza dalla programmazione alla Berlinale 61, dove lo abbiamo visto per la prima volta. Per l’occasione proponiamo un’analisi di Paola Di Giuseppe su The Turin Horse, uno degli approfondimenti dedicati alla filmografia essenziale di Béla Tarr. E’ possibile leggere nello speciale Béla Tarr, gli approfondimenti su:

Dannazione
Satantango
Le armonie di Werckmeister
The Man from London

In Turin on 3rd January, 1889, Friedrich Nietzsche steps out of the doorway of number six, Via Carlo Albert. Not far from him, the driver of a hansom cab is having trouble with a stubborn horse. Despite all his urging, the horse refuses to move, whereupon the driver loses his patience and takes his whip to it. Nietzsche comes up to the throng and puts an end to the brutal scene, throwing his arms around the horse’s neck, sobbing. His landlord takes him home, he lies motionless and silent for two days on a divan until he mutters the obligatory last words, and lives for another ten years, silent and demented, cared for by his mother and sisters.

We do not know what happened to the horse.

Con il suo ultimo film Bela Tarr parte da Nietzsche, la voce fuori campo in apertura racconta la nota leggenda del filosofo e del cavallo di Torino picchiato dal cocchiere, uno schiavo senza parole che lui corse ad abbracciare piangendo. Poi cadde in una condizione catatonica dalla quale non uscì più fino alla morte, avvenuta dieci anni dopo, assistito dalle cure della madre e della sorella. “Mutter, ich bin dumm” (madre, io sono stupido) sembra siano state le parole con cui il filosofo si staccò dalla vita sociale e chiuse definitivamente la partita col mondo.

We do not know what happened to the horse.

Quello che è accaduto al cavallo lo sapremo dal film.

Il riferimento all’aneddoto, lungi dall’essere un pretesto o solo uno spunto, è piuttosto un incipit programmatico, ha un chiaro valore proemiale in questo poema in sei giornate, come ad evocare quello spirito di suprema lungimiranza che precorse i tempi dicendo all’uomo:

Wie man wird, was man ist
Come si diventa ciò che si è

 Con questa che per sua dichiarazione è la sua ultima opera, Tarr si congeda dal cinema dicendo le cose che restavano da dire, e la vicenda di Nietzsche, seguita dalla ricostruzione della fine del cavallo, del suo padrone e della figlia del padrone, chiude una storia lungo la quale ha elaborato un’estetica, dato forma ad una meditazione filosofica, concepito una mitopoiesi tale da lasciare nella storia dell’arte il solco che sempre lascia il genio. La visione di A Torinói ló può anche essere episodica, senza che questo ne alteri la comprensione, il capolavoro brilla sempre di luce propria, ma vederlo al termine di un percorso che attraversi Kárhozat (Dannazione, 1988), Werckmeister harmóniák (Le armonie di Werckmeister, 2000) A Londoni férfi  (The man from London 2007) passando per Sátántangó (1994), summa insuperabile e fluviale della sua opera, è un modo per tornare sui propri passi, rimeditare, riascoltare, sentire la vibrazione di un pensiero che non ha quasi bisogno di parole per comunicare. Il volto chiuso di padre e figlia, mai inquadrati frontalmente, il cavallo che aspetta la morte in quella stalla buia, la stanza spoglia nella casa di pietra, isolata nella puszta spazzata dal vento, dove si consuma un rituale di gesti quotidiani svuotati di vitalità, puro istinto di sopravvivenza che lancia i suoi ultimi guizzi, come la lampada ad olio che si spegnerà in chiusura, lasciando nel buio i due profili umani seduti a tavola con l’ennesima patata bollita che resta quasi tutta nel piatto, tutto questo è di straordinaria eloquenza visiva e, soprattutto, di semplice immediatezza concettuale.

“Nei miei film le scene sono molto semplici e ben definite, e cerchiamo di cogliere il valore della vita. Abbiamo una vita ed è come viverla che conta. Le vite dei miei personaggi mi interessano. Per me nulla è sacro, tranne la vita” aveva dichiarato il regista ai tempi di Sátántangó.

Quasi vent’anni dopo l’itinerario si chiude nel buio e nel silenzio totali, arriva al suo capolinea su quel carretto sgangherato che per sei minuti, in apertura, un uomo anziano guida nel mezzo di una tormenta di vento e polvere, trainato da un cavallo estenuato, il mantello spelacchiato e corroso dagli anni, una sequenza di raffinata maestria con la macchina da presa che gira intorno al carro, si avvicina e si allontana, non stacca mai, creando un ritmo di danza funebre, l’apocalisse annunciata che la musica accompagna in sincronia perfetta, segmento sonoro e visivo coincidono e si dissoceranno nel resto del film, scandito in sei giornate, allorchè Mihály Vig (insostituibile complemento musicale alla regia di Tarr dai tempi di Öszi almanach, 1984), farà entrare a tratti violini e fisarmonica per una tessitura sonora minimalista, unica alternativa al sibilo del vento. Il silenzio è la dominante del film, quello dell’uomo e della figlia, a cui non resta che uno sgabello davanti ad una finestra a guardare un’immensa distesa vuota sconvolta dal vento, e il silenzio del cavallo che non lancia neppure un nitrito. E’ il silenzio di un mondo in bianco e nero che sta progressivamente smarrendo ogni strada, si sono polverizzate le ragioni per cui vivere, si rappresenta l’anti-idea, se per idea s’intende oggettivazione, ciò che si vede e, dunque, ciò per cui si vive. Di giornata in giornata, di sequenza in sequenza, si avverte un progressivo venire a mancare della vista, come un’opzione ormai inutile. Se i due attraversano lo spazio esterno, gli occhi si riempiono di vento e polvere, i lunghi capelli della ragazza si attorcigliano al volto. Se sono all’interno, l’uomo, ripreso di spalle, siede immobile davanti alla finestra, e nell’ultima scena ha il capo reclinato sul petto, si alza solo per l’istinto che lo porta alla tavola dove c’è la solita patata bollita che sbuccia e disfa con le mani. La figlia è  seduta di fronte, fa gli stessi movimenti, piccoli pezzi vengono masticati ancora bollenti. poi tutto riprende allo stesso modo, e l’estraneità dell’uomo all’altro e dell’uomo alle cose tocca pian piano il fondo. L’ordine cosmico si è rotto, il rifiuto del cavallo di lavorare è stato il segno d’inizio della resa, non vedremo altro che questo, anche quando ci illuderemo che qualcosa stia cambiando (l’arrivo degli zingari con il breve alterco intorno al pozzo, il vicino eloquente che si produce in un lungo intermezzo sulla morte di Dio, il tentativo di padre e figlia di fuga dalla casa, ben presto respinti dalla furia del vento e dalla desolazione del territorio) nulla in realtà potrà opporsi ai movimenti impercettibili che segnano la progressione verso la fine. La monotonia soffocante di opere e giorni privati di ogni calore umano e possibile comunicazione  non preclude però la fascinazione ipnotica della visione, merito di una regia che si serve di tutte le sue possibilità espressive fino a rendere denso il nulla, e la scarnificazione assoluta che nasce dalla perdita di fiducia nell’essere umano condannato all’ isolamento approda ad un “cinema puro” che è bellezza, comunque e sempre, ed è anche profonda pietas che si sprigiona dalle immagini, pur rigorosamente determinate a non lasciare spazio a illusioni sulle sorti del mondo. Il povero vecchio (Jànos Derzsi) paralizzato nel braccio destro e la figlia taciturna e semianalfabeta (Erika Bòk) che lo accudisce, sono quel che resta di un’umanità che ha raggiunto la consapevolezza di quella che Nietzsche definì “ingenuità iperbolica”, consistente nel porre sé stessa come misura e valore di tutte le cose. (continua nella pagina successiva..)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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