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The Vatican Tapes di Mark Neveldine: la recensione

Mark Neveldine lascia il fido Brian Taylor con il quale dal 2006 al 2011 ha condiviso quattro regie, per firmare tutto da solo questo The Vatican Tapes, scritto da due sceneggiatori abbastanza tiepidi come Christopher Borrelli e Michael C. Martin.

Rimane ben poco rispetto all’action muscolare ricombinata con le angolature di ripresa più ardite possibili nei due film della serie “Crank” realizzati con Jason Statham; ed è lo stesso per quanto riguarda la follia delirante ritagliata su un grande Nicolas Cage in “Ghost Rider – Spirito di vendetta”, qui totalmente assente.

Dopo un incipit realizzato con footage di repertorio mentre passano in rassegna le immagini dei Papi più importanti della storia incluso Francesco, si entra nel vivo di un segreto tenuto sotto silenzio per secoli tra le stanze vaticane; il male potrebbe manifestarsi dietro le mentite spoglie del salvatore risorto, ripetendo in realtà un adagio che è anche nelle lettere di San Paolo ai Corinzi: “[….] Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce“.

A partire da queste considerazioni, il vicario papale Imani (Djimon Hounsou) dischiude una ricca documentazione audiovisiva tenuta nascosta, che testimonierebbe l’ampia casistica di possessioni diaboliche in tutto il mondo, invitando all’azione il Cardinal Bruun (Peter Andersson), il tutto davanti a due iMac da 27 pollici.

Dall’immondo segreto svelato con allusioni complottiste si passa ad esaminare il caso di una giovane donna, Angela Holmes (Olivia Taylor Dudley) rispetto alla quale il vicario chiede esplicitamente che si raccolgano tutti i video registrati dagli ospedali e dall’istituto di sanità mentale dove è stata ricoverata. Figlia di un ufficiale dell’esercito di origini irlandesi e fervente cattolico (Dougray Scott) la ragazza convive con il fidanzato Pete (John Patrick Amedori) e ha condotto sino ad ora un’esistenza apparentemente normale, fino a quando non si sono manifestati strani fenomeni psicotici conditi da alcuni segnali premonitori, tra i quali la presenza di un minaccioso corvo che sembra vegliare su di lei.

È un procedimento a ritroso quello di Neveldine/Borrelli che utilizza il found footage solamente come innesco per raccontare una storia di possessione che da questo momento in poi saccheggia tutti i luoghi comuni del genere riferendosi di volta in volta e in modo più o meno esplicito al capolavoro di William Friedkin, al capitolo de L’Esorcista diretto da William Peter Blatty (tutto il segmento girato nell’istituto per malati mentali), passando per “Il presagio” di Donner, fino ad alludere addirittura al John Carpenter di Prince Of Darkness con l’immagine in video di Angela Holmes che sostituisce quella del redentore.

Nel film di Neveldine l’aderenza ai modelli segue un percorso del tutto inerte, ripetendo in serie le stazioni della croce demoniaca tra ospedali, psichiatri scettici, improvvise precognizioni, lingue sconosciute recitate con assoluta padronanza, tiepide volgarità assortite e una resurrezione come simbolo della “nuova via” che dovrebbe fare la differenza, il tutto senza azzardare la vertigine dell’eccesso come accadeva in Ghost Rider. Al contrario si sceglie una strada così battuta e consunta da non permettere alcuna deriva dalle regole del gioco, magari di stampo anche fumettistico.

E se la dialettica tra padre Lozano (Michael Peña) e il Cardinal Bruun sembra spostarsi su altre questioni rispetto al dualismo che ha attraversato molti dei titoli citati incluso Liberaci dal Male, l’elegia urbana e nerissima di Scott Derrickson, Neveldine non è minimamente interessato ad approfondire l’ambiguità quasi demoniaca di Bruun, limitandosi a rappresentare tutto il passaggio dallo spirito al corpo con una pugnalata.

Intendiamoci, dalla guasconeria ludica del cinema di Neveldine non ci saremmo aspettati niente di diverso, ma il problema è proprio questo: The Vatican Tapes non funziona perché nel rispetto delle regole, imita malamente senza il rischio di imbarcarsi in una sana cagnara come ad esempio accadeva alla fine degli anni novanta in “Stigmata” di Rupert Wainwright, film eccessivo, clipparo, divertente e scandito da ritmi techno-core.

E se qualsiasi rovesciamento esplicito avrebbe forse corso il rischio della trovata intelligente ad ogni costo, le flebili allusioni al nuovo che nasconde il vecchio e al male che si manifesta attraverso il bene per alimentare l’ansia di rinnovamento diffusa in ogni dove, rimane una suggestione sullo sfondo senza alcuna sollecitazione politica.

Sempre a proposito di gioco, considerato che dal cinema di Neveldine ci aspettiamo questo, quando la bella Dudley si smaterializza come in una magia di Segundo de Chomon, ci piacerebbe ridere, ma non è possibile.

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