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‘til madness do us part (Feng ai) di Wang Bing a Venezia 70: lo sguardo nella sofferenza

Dopo Three Sisters il grande regista cinese Wang Bing continua con il suo documentarismo “estremo” mantenendo per ora come unico film di finzione il bellissimo The Ditch, opera spostata indietro temporalmente, rispetto agli interessi d’analisi di Wang Bing, ma che ci parlava comunque, drammaticamente, anche della Cina contemporanea

E un punto di contatto con il fossato, in Feng ai, è probabilmente il buio, le condizioni in cui Wang Bing ha girato, immerso in un luogo come fosse un occhio invisibile, che  a dispetto di qualsiasi grammatica tecnica è un HD continuamente sottoesposto e costituito da un’immagine granulosa, sporca, ai limiti del visibile.

Una scelta non intrusiva che per 227 minuti penetra i corridoio di un’istituto di igiene mentale dove sono recluse persone tra i 20 e i 50 anni con diagnosi completmente diverse; dai pazienti violenti a persone con seri deficit mentali, fino a chi occupa un letto perchè non può permettersi una vita fuori da quella prigione.

Wang Bing rimane a questa “giusta” distanza, quasi miracolosamente non visto, colloca la camera in modo da lasciare integro il materiale girato, senza intervenire in fase di post-produzione con un montaggio che avrebbe potuto applicare al suo lavoro uno sguardo giudicante.

Gli ospiti dell’istituto si muovono in una sorta di corte interna protetta da sbarre, entrano ed escono da camerate comuni, dove spesso si scambiano i letti, dove a volte si toccano tra di loro in un modo commovente e assolutamente naturale, oppure condividono un mandarino portato dalle famiglie, o ancora fanno la posta ad uno di loro che nasconde dolciumi e non ha nessuna intenzione di cederli.

Gli unici momenti girati fuori dall’ospedale sono per seguire il ritorno a casa di un paziente; una delle sezioni più belle del film; Wang Bing osserva quest’uomo nella sua apatia e nello scontro con la famiglia che non può più permettersi di mantenerlo: “torna in ospedale, qui non c’è posto per te”; a un certo punto percorrerà una strada del suo villaggio verso il niente, tra ruderi e case mai finite, in un’immagine informe della Cina che non può non ricordare le città che scompaiono dall’orizzonte in Still Life di Jia Zhangke.

Tutto quello che percepiamo del mondo “fuori” è attraverso le visite delle famiglie; come la moglie di uno di loro che dopo aver rivestito il marito da capo a piedi, passerà la giornata di capodanno a mangiare semi di girasole e a condividere con gli altri ospiti parte del cibo che l’uomo rifiuta per la depressione che lo soffoca; è un momento bellissimo, dove Wang Bing riesce a catturare una complessa rete di sensazioni, tra il disprezzo, il rifiuto, l’affetto e una solidarietà quasi istintiva;  nonostante il luogo sia l’emanazione di un regime sordo alle necessità dei più deboli, questi trovano la via per costruire una micro-società interna che è migliore di quella prefigurata da chi non ha trovato altro spazio per loro.

Attraverso la persistenza dello sguardo, il “dentro” rivela molto più di un documentario esplicitamente politico, perchè racconta l’assenza di diritti fondamentali nella struttura di un’intera società, collocando l’occhio all’altezza di un’aberrazione che è parte diretta del sistema politico; Wang Bing non raccoglie testimonianze, non intervista i dottori, non parla direttamente con i pazienti e con le loro famiglie; chiede di stare con loro, e di contribuire con uno sguardo che non è “della” sofferenza, ma “nella” sofferenza.

 

 

 

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